Inaugurata la nuova sede dell’Archivio ASMOS

È stata inaugurata la nuova sede dell’ASMOS (Archivio Storico del Movimento Operaio Democratico Senese), sede che accoglie la sua ampia dote di materiali, documenti, pubblicazioni, manifesti, video, audio ed altro ancora. La sede principale è anche quella in cui si può accedere al catalogo (in attesa dell’accesso online) e alla consultazione. Sedi decentrate si trovano anche a Colle Val d’Elsa e Rapolano (solo deposito).

L’Associazione la Quercia, oltre a mettere a disposizione i locali e farsi carico della messa a norma per sicurezza e antincendio, è il soggetto che si prenderà anche cura delle nuove acquisizioni, della catalogazione, della digitalizzazione e della promozione dell’Archivio.

Dopo circa dieci anni di stasi dovute a difficoltà gestionali, ed essendo anche venuta a mancare l’ospitalità del Comune di Siena che in passato aveva messo a disposizione i locali in san Marco, l’ Archivio torna finalmente ad essere aperto e accessibile al pubblico.

Si apre quindi una fase nuova, che vedrà la Quercia impegnata a continuare ad investire sull’Archivio, anche attraverso le collaborazioni già avviate con la Fondazione Gramsci per la catalogazione on line dei materiali, e con l’Associazione Berlinguer per la partnership nella presentazione di progetti.

“L’Archivio è costituito da documenti ancora in gran parte inediti, sia come fondi di dirigenti e di sezioni locali del Partito Comunista senese, sia come audiovisivi, fotografie, manifesti, bandiere e giornali murali d’epoca, oltre a dotarsi di una rara emeroteca e biblioteca: tutto questo siamo certi che sarà spunto per nuove ricerche accademiche e non” ha detto Tiziano Scarpelli, presidente de La Quercia – “rendendo l’Archivio sempre più vivo e vitale”. All’evento inaugurale sono intervenuti: Monica Barni, Assessora alla Cultura e Vicepresidente della Regione Toscana, Il senatore Ugo Sposetti, presidente dell’Associazione Berlinguer e Il prof. Stefano Moscadelli, docente di Archivistica all’Università di Siena; tutti i relatori hanno manifestato il loro plauso alla soluzione trovata,  mentre Massimo Bianchi, presidente ASMOS, ha ribadito con entusiasmo l’inizio di una nuova fase per la vita dell’Archivio.

L’A.S.M.O.S. Archivio Storico del Movimento Operaio e Democratico Senese si trova a Siena in via Algero Rosi n. 32; apre al pubblico il mercoledì dalle 10,00 alle 13,00, e in caso di particolari esigenze è prevista la possibilità di un’apertura su appuntamento scrivendo una email all’indirizzo di posta info.asmos@gmail.com  oppure telefonando al 392.5636593

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il nostro Calendario: 12 dicembre

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1969: Piazza Fontana, Milano

Il 12 dicembre 1969 la sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana, a Milano, era piena di clienti venuti soprattutto dalla provincia; alle 16:30, mentre gli altri istituti di credito chiudevano, all’interno della filiale c’erano ancora molte persone. L’esplosione avvenne alle 16:37, quando nel grande salone dal tetto a cupola scoppiò un ordigno contenente 7 chili di tritolo, uccidendo 17 persone delle quali 13 sul colpo, e ferendone altre 87; la diciassettesima vittima morì un anno dopo per problemi di salute legati all’esplosione. Una seconda bomba fu rinvenuta inesplosa nella sede milanese della Banca Commerciale Italiana, in piazza della Scala. La borsa fu recuperata ma l’ordigno, che poteva fornire preziosi elementi per l’indagine, fu fatto brillare dagli artificieri la sera stessa. Una terza bomba esplose a Roma alle 16:55 nel passaggio sotterraneo che collegava l’entrata di via Veneto della Banca Nazionale del Lavoro con quella di via di San Basilio; altre due esplosero a Roma tra le 17:20 e le 17:30, una davanti all’Altare della Patria e l’altra all’ingresso del Museo centrale del Risorgimento, in piazza Venezia. I feriti a Roma furono in tutto 16. Comincia qui la strategia della tensione.

PATMOS di Pierpaolo Pasolini

Sono sotto choc

è giunto fino a Patmos sentore
di ciò che annusano i cappellani
i morti erano tutti dai cinquanta ai settanta
la mia età fra pochi anni, rivelazione di Gesù Cristo
che Dio, per istruire i suoi servi
– sulle cose che devono ben presto accadere –
ha fatto conoscere per mezzo del suo Angelo
al proprio servo Giovanni.
Ci sono là marcite; e molti pioppi. Venendo da là
vestivano di grigio e marrone; la roba pesante,
che fuma nelle osterie con le latrine all’aperto.
Poca creanza, farsi ritrovare così,
da parte di quei galantuomini non ancora del tutto romanizzati,
e sì che tutti i barocci erano spariti da un pezzo!
Ma gli usati corpi, non di monaci,
perché cattolici erano cattolici, ma s’erano sposati, fornicando
la loro parte; insomma, giusto perché dei nipotini oggi piangessero.
Solo un suicidio porterà sulle tracce del responsabile di tal pianto. (1)
Lombardi al Governo! Tra voi e il paese c’è un abisso.
È la vostra banalità che lo scava (le «e» strette
son niente confronto al lessico; che umile dialetto non è;
lo fosse!)Bomba_piazza_fontana
E chi è sotto choc ride con gli occhi di Antonioni
Il quale attesta come parola di Dio e testimonianza di Gesù Cristo
e anche Pasolini ride,
tutto quello che ha veduto,
mentre Moravia è distratto, beato chi legge,
e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia.
Che ne piangano le loro famiglie; io ne parlo da letterato.
Oppongo al cordoglio un certo manierismo.
Di tradizioni recenti son piene le Sette Chiesuole.
Canoni e tropi a disposizione rimpiazzano le commozioni;
e basta deciderlo, l’umore necessario è pronto
con tutti i suoi caratteri
(di difesa dietro il lessico, esso, eslege, desueto)
chi è al potere altresì ha le sue figure
entro cui comodamente sostituire al logos il nulla;
dietro una cattedra, un tavolo da lavoro,
col doppiopetto: perché il tempo è lontano.
Così si consola la morte, e chi ha la cattiva creanza
di farsi piangere; ridotto a tronconi: cosa inammissibile
in un uomo serio, che si occupa di agricoltura!
Come poi se fossimo nel ’44.
Io sono l’Alfa e l’Omega, colui che è, che era e che viene; l’Onnipotente;
fidando su ciò, l’onorevole Rumor, Pocopotente
ma Potente, comunque,
si dissocia dai telespettatori dei bar
e parla ai piccoli borghesi in famiglia che si saziano
di indignazione del tutto lessicalmente estranea al popolo.

Milano_-_Piazza_Fontana_-_Lapide_Vittime
Attilio Valè: presente!
52 anni, abitava a Mairano di Noviglio.
Era separato da otto anni dalla moglie;
era un bell’uomo alto circa un metro e ottanta:
commerciava in bestiame
Io, Giovanni, vostro fratello,
che partecipa con voi alla stessa tribolazione
al regno e alla perseveranza di Gesù,
mi trovai relegato nell’isola chiamata Patmos
a causa del Vangelo di Dio e delle testimonianze che rendevo a Gesù.
L’Autorità dello Stato moderato non contempla la realtà dei sensali.
Pietro Dendena (presente!) 45 anni,
abitava a Lodi in un nuovo edificio di Via Italia 11
con la moglie Luisa Corbellini, la figlia Franca, 17 anni,
che frequenta il corso di segretariato d’azienda,
e il figlio Paolo, 10 anni, alunno di quinta elementare.
Di professione mediatore,
frequentava regolarmente il mercato di Piazza Fontana
non mi meraviglierei da letterato schizoide
che comparisse tale e quale in un olio del Prado
né che avesse un debole per l’Inter;
ci son portichetti a Lodi, tetramente settentrionali –
contro un cielo buio, con nuvole basse –
micragna dei tempi degli Antenati, odor di vacche!
L’è il dì di mort (tutti presenti).
Quanto a Paolo Gerli, 77 anni (presente)
ci son portichetti a Lodi a sesto acuto,
e le piccole osterie micragnose sanno di vestiti bagnati
riscaldati dalla stufa
abitava con la moglie in un bellissimo palazzo di Via Savaré, 1,
dove si era trasferito nel 1954
possidente di non pochi terreni agricoli,
curava in proprio il commercio dei prodotti della sua terra.
I vicini di casa, loro,
lo ricordano come un signore gioviale e esuberante.
Usava regolarmente la bicicletta.
Aveva avuto dal matrimonio tre figlie tutte sposate.
Or, ecco, fui rapito in estasi, nel giorno del Signore
e udii dietro a me una voce potente, come di tromba
Eugenio Corsini, 55 anni, presente!
abitava dall’epoca delle nozze in Via Procopio 8,
padre di due figli ormai sposati,
commerciava in olii lubrificanti per macchine agricole.
La moglie non aveva smesso di lavorare.
Non si cantarono serenate in quel 1940;
dal 1940 si era lavorato giudiziosamente, a casa a far la calza.
Si erano frequentate scuole in vista di futuri risparmi;
niente grilli per la testa, che nessuno avesse niente da ridire;
la Morale come una cosa passata di donna in donna;
poco riso negli occhi, e gran risate al momento giusto: a Natale.
Io mi voltai per vedere la voce che parlava
e appena voltato vidi sette candelabri d’oro
Carlo Luigi Perego, 74 anni, risiedeva a Usmate Velate
e in mezzo ai candelabri Uno che assomigliava al Figlio dell’Uomo
in Via Stazione 21
vestito di una lunga veste
lascia la moglie e due figli sposati
che hanno proseguito la sua attività di assicuratore
e cinto d’una fascia d’oro sul petto
Era venuto a Milano per rivedere i vecchi amici
e per sbrigare alcune faccende relative all’attività dei figli
Il suo capo e i suoi capelli erano bianchi come lana
i suoi piedi erano simili a rame ardente arroventato in una fornace
(così disse chi li raccolse sotto il bancone)
Aveva presieduto, in qualità di coraggioso combattente del ’15-18
la locale sezione dell’associazione dei combattenti. Presente!
Carlo Garavaglia, 67 anni, presente!
Alla morte della moglie era andato a abitare con la figlia sposata
la sua voce era come il rumore delle grandi acque
a Corsico in Via XX Settembre 19.
Nella destra teneva sette stelle.
Era stato macellaio
dalla sua bocca usciva un’acuta spada a due tagli
percepiva attualmente una pensione di 18 mila lire.
La sua faccia era come il sole.
Tentava di realizzare qualche guadagno extra facendo il mediatore.
Carlo Gaiani, presente, 57 anni,
abitava con la moglie alla cascina Salesiana
Era perito agrario
ed aveva condotto con successo l’azienda agricola
che conduceva come affittuario, fino ad alcuni anni addietro.
Ora l’azienda era in decadenza.
Lavorava personalmente la terra con un solo lavorante.
Si era recato alla Banca dell’Agricoltura
per concludere la vendita delle ultime 14 vacche.
Saragat taccio, ma ne parla l’«Observer». (2)
Oreste Sangalli, 49 anni: «Presente!»
affittuario della cascina Ronchetto in via Merula 13 a Milano
mettiamo la sordina alla tromba di quell’Uno
lascia la moglie e due ragazzi, Franco di 13 e Claudio di 11
fare d’ogni erba un fascio degli estremisti
si era recato al mercato di Piazza Fontana
va bene per i giornali indipendenti (dalla Verità)
come tutti i venerdì in compagnia di Luigi Meloni
ma un presidente della Repubblica!
Si erano momentaneamente lasciati a Porta Ticinese
Non si può predicare moderazione
e si erano dati appuntamento a Piazza Fontana
in un paese dove è appunto la moderazione che va male
Hanno trovato entrambi la morte
e dove non si può essere moderati senza essere banali
poco dopo essersi ritrovati.
Luigi Meloni, 57 anni presente:
commerciante di bestiame abitava a Corsico in Via Cavour
con la moglie e il figlio Mario, studente di 18 anni.
Possiede qualche piccola proprietà immobiliare.
Era venuto a Milano con la vettura del Sangalli.
E quando l’ebbi veduto io caddi ai suoi piedi come morto.
Ma egli pose sopra di me la sua destra e disse:
Non temere, io sono il Primo e l’Ultimo.
Io sono il Medio, parvero dire Rumor e i suoi colleghi.
Non si può essere medi, qui, senza essere privi d’immaginazione.
Io sono il Primo e l’Ultimo, il Vivente.
Giulio China, 57 anni, presente!!
Era uno dei più importanti commercianti di bestiame di Novara,
ove possedeva due cascine. Lascia la moglie e due figlie sposate.
Ho subìto la morte, ma ecco, ora vivo nei secoli dei secoli
(a differenza di Giulio China)
e tengo le chiavi della morte e dell’inferno.
Mario Pasi, cinquant’anni: presente,
abitava con la moglie in un bell’appartamento di Via Mercalli 16.
Ah antichi portichetti a sesto acuto, grigi, scrostati,
sotto cui l’ombra è così fredda che par di essere in Germania
e i negozietti di mercerie stringono il cuore, e ancor più
se vi si vendono anche caramelle, in scatole di cartone
Ma ci son anche palazzi di metallo e vetro
che danno sui parchi
Non aveva figli. Geometra,
si era dedicato all’amministrazione di fondi e stabili.
Era stato ufficiale di cavalleria.
Scrivi dunque le cose che hai vedute,
e le presenti e quelle che verranno dopo di esse:
l’Italia è in crisi, e la stessa crisi che soffro io
(inadattabilità alle nuove operazioni bancarie)
la soffrono alla loro bestial maniera i fascisti:
le ultime 14 vacche! Le ultime 14 vacche!
Ecco il senso misterioso delle sette stelle;
ché se sette erano magre, le altre sette erano ancor grassottelle.
Carlo Silva, 71 anni, abitava in Corso Lodi 108,
con la moglie e un figlio, impiegato alla «Dubied».
Aveva un secondo figlio sposato.
Aveva fatto il mediatore per tutta la vita
ma una lieve forma di paralisi lo aveva costretto
a muoversi con l’ausilio di un bastone.
Percepiva una esigua pensione, ma non aveva rinunciato
a recarsi ogni venerdì al settimanale convegno coi vecchi colleghi.
Bisogna andare da loro, stupidi come vipere, e dir loro:
Siamo fratelli: possediamo le ultime quattordici vacche:
la nostra azienda è in rovina,
lavoriamo con le nostre mani la terra
aiutati da un solo lavorante.
Non siamo più in grado di abitare in questo Paese
che se ne va per le strade nuove della storia
che hai veduto nella mia destra
e dei sette candelabri d’oro;
Gerolamo Papetti, 79 anni,
abitava alla cascina Ghisolfa di Rho
di cui era proprietario.
Aveva perso la moglie alcuni anni addietro.
Lascia tre figli, uno dei quali, Giocondo,
lo aveva accompagnato a Milano
ed è rimasto ferito in seguito allo scoppio.
Le sette stelle sono i sette Angeli delle sette Chiese
e i sette candelabri sono le sette Chiese.
Beh, non ho intenzione di scrivere l’intero Apocalisse:
ormai basta solo progettarlo;
e così le idee, basta enunciarle: realizzarle è superfluo.
In piena epoca industriale,
coltiviamo dunque la terra con le nostre mani, e un solo lavorante.
Andremo dunque presto a vendere le nostre ultime 14 vacche
ai Vicini nel 1970 avanti Cristo.
No, davvero non si può,
l’ecolalie neanche notarili
vomitate su noi dai nostri coetanei al Governo
sono intollerabili. Caro Moravia, caro Antonioni,
andiamo di là.
Poi venni a casa.

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I funerali delle vittime a Milano

La porta che dava sul corridoio della camera di mia madre
era aperta: da ciò arguii la sua inquietudine.
Essa ha ottant’anni, l’età di Gerolamo Papetti:
e penso a ciò che deve ancora soffrire.
Da letterato che fa della letteratura
dichiaro la mia solidarietà a «Potere Operaio»
e a tutti gli altri groupuscules di estrema sinistra,
Saragat non doveva fare un fascio di quell’erba:
e dunque sugli scudi Tolin.
Le sette Chiese sono su di noi, le zozze.
Scende la notte dello choc: il Naviglio va sottoterra
Tu ti suiciderai
se avevi tutto da guadagnare e nulla da perdere (3)
e quindi non sei un fascista di sinistra, che, poverino,
coi suoi ideali estremistici ora così tragicamente frustrati,
è divenuto mio caro fratello, e vorrei abbracciarlo forte;
tu ti ucciderai, fascista pazzo,
e il tuo suicidio non servirà ad altro
che a dare una disgraziata traccia alla Polizia.
In attesa di essere vendute, queste nostre ultime 14 vacche
pascolano crepuscolari a Patmos
dove ci si limita a scrivere, dell’Apocalisse, il solo prologo.
Ma approfondiamo
(che altro non si fa a Patmos,
senza giungere mai a conclusioni diverse da quelle previste,
il deprimente disprezzo per la borghesia, ivi compresi
i morti di cui sopra, tutti onorabilmente vissuti infino alla fine)
proseguendo, proseguendo eroicamente,
dopo aver steso un velo sulla sconfitta dei giovani
A Efeso a Pergamo a Smirne a Tiatira a Sardi a Filadelfia e a Laodicea
vivono i lettori che disprezzano i buoni sentimenti
e sanno, sanno bene del binomio Autorità-Banalità,
ma ciò non esclude che anche tra loro
i buoni sentimenti siano poi del tutto screditati, anzi, anzi!
Ma le conclusioni di ogni approfondimento sono prevedibili, ripeto.
L’ultimo odor di stalla e di farina
e la stoffa che fuma nelle osterie con la latrina all’aperto
dove va gente che se la intende sull’onorabilità
e vi fa del razzismo romanico
unisce intellettuali di sinistra e fascisti a un unico culto
in via di estinzione: allontanando nel cosmo il punto di vista (4)
essi appaiono tutti raccolti a imprecare allo stesso tabernacolo;
la porta della storia è una Porta Stretta
infilarsi dentro costa una spaventosa fatica
c’è chi rinuncia e dà in giro il culo
e chi non ci rinuncia, ma male, e tiri fuori il cric dal portabagagli,
e chi vuole entrarci a tutti i costi, a gomitate ma con dignità;
ma son tutti là, davanti a quella Porta.

(1) Questi versi sono stati scritti tra il 13 e il 14 dicembre; prima che si sapesse del suicidio dell’anarchico Pinelli.
(2) Ricordo di nuovo al lettore che questi versi sono stati scritti solo il giorno dopo i fatti di cui si parla.
(3) Prevedendo in questi versi un suicidio, pensavo, con assurda ingenuità, che il colpevole che si sarebbe suicidato sarebbe stato un fascista.
(4) Come nella Commedia pappo coesiste notoriamente con pulcro.

disegno di Dario Fo per Morte accidentale di un anarchico

 

Qui puoi vedere lo speciale di Carlo Lucarelli sulla strage di Piazza Fontana: https://www.raiplay.it/video/2019/11/Piazza-Fontana-racconto-di-una-strage—Blu-Notte—La-strage-di-Piazza-Fontana-un-processo-senza-fine-0ecda3e2-f144-4ce9-9136-4eb225ae56f1.html

il nostro Calendario: 4 dicembre

1999-2019: Vent’anni senza Nilde Iotti

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Nella  sua vita ha conosciuto le fatiche, la fierezza, l’amore intenso e l’intenso dolore, l’amore per la figlia Marisa e per i nipoti, la grande passione per la politica dove ha saputo essere innovatrice, intransigente e madre generosa.

Nilde Iotti nasce il 10 aprile del 1920 a Reggio Emilia, da Egidio ed Alberta Vezzoli, sposati civilmente.

Una famiglia tranquilla,  Egidio, ferroviere, socialista prampoliniano  ed attivista sindacale ; Alberta, una casalinga che amava leggere il Manzoni. Dopo l’avvento del fascismo, il  padre decide di ritirare la figlia dalla scuola pubblica per iscriverla ad un istituto cattolico, nel tentativo di sottrarla all’indottrinamento fascista ”meglio i preti dei fascisti”. Il padre pagò con il licenziamento dal lavoro  la sua fede  antifascista costringendo la famiglia ad affrontare grandi difficoltà economiche. Su un punto il padre non  arretra:  fare studiare la figlia. Esaltava il valore dello studio come base per diventare classe dirigente e sconfiggere il fascismo.”  Nilde, loro sanno, loro sanno” soleva ripetere alla figlia. Loro erano i borghesi e per far vincere il proletariato bisognava che esso si acculturasse. Dopo la morte del padre avvenuta nel 1934,la situazione economica si aggrava ulteriormente e la madre inizia a lavorare per permettere a Nilde Iotti, pur con grandi sacrifici di continuare gli studi intrapresi presso l’Istituto “ Principessa di Napoli” di Reggio Emilia.

Nel 1938, grazie ad una Borsa di studio, Nilde si iscrive alla facoltà di Magistero Dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nilde avrebbe preferito iscriversi alla facoltà di medicina o di ingegneria ma deve rinunciare per ragioni economiche e si prepara alla carriera dell’insegnamento. Partiva da Reggio Emilia con il treno verso Milano, viveva in una piccola stanzetta in affitto  e sentiva i rumori dei bombardamenti e le urla delle persone cui si univa nei rifugi . Nel corso degli anni universitari, inseguito allo studio della dottrina e della morale cattolica, Nilde Iotti vive una profonda crisi di carattere religioso che la porta ad allontanarsi dalla fede cattolica.

Il 31 ottobre del 1942 si laurea con una tesi dal titolo” L’attuazione delle riforme in Reggio Emilia nella seconda metà del secolo XVIII”.  Dopo la laurea ritorna a Reggio Emilia e comincia ad insegnare lettere presso l’Istituto Tecnico Commerciale per geometri ”A.Sacchi”. La devastazione prodotta dal fascismo , l’avvio della guerra partigiana la sollecitano a schierarsi, a fare la sua parte. Lo fa ascoltando molte voci: prima  fra tutte quella delle  donne dei Gruppi di Difesa delle Donne, la prima grande ed unitaria organizzazione femminile aperta a tutte le donne. Ascolta la voce del cattolico La Pira, dei socialisti.

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A convincerla in modo definitivo nella scelta politica non solo contro il fascismo ma accanto al partito Comunista Italiano  fu l’ascolto della “voce gracchiante di Ercoli(Togliatti)” a Radio Londra quando annuncia la Svolta di Salerno, l’unità antifascista, il sostegno del governo Badoglio per sconfiggere il fascismo ed il nazismo e l’impegno a  costruire la democrazia progressiva, attraverso l’unità dei comunisti, socialisti e cattolici. Fin dall’inizio del suo apprendistato politico Nilde Iotti ha un atteggiamento aperto che la porta all’ascolto di tutte le voci e di tutte le culture schierate contro il fascismo. Nel 1945 ,in piena occupazione tedesca, festeggia il suo primo 8 marzo organizzando una manifestazione di donne davanti alla questura di Reggio Emilia  per richiedere la distribuzione dei viveri ed il rilascio dei detenuti politici. Nel luglio ,in occasione delle prime elezioni libere viene eletta consigliera comunale come indipendente nelle liste del PCI. Tante volte ci raccontava dei suoi  primi  comizi nelle piazze e nelle strade, a volte deserti ma solo apparentemente, perché  le donne l’ascoltavano chiuse nelle loro case dietro le finestre, poi cominciarono ad affacciarsi  sui balconi. Nell’autunno venne eletta segretaria provinciale dell’UDI che contava 23mila iscritte e svolge una attività intensa tra le donne imprimendo una svolta innovativa rispetto alla tradizionale impostazione della battaglia di emancipazione. Bisognava che le donne fossero impegnate nel lavoro ma anche nella cultura. Bisognava rivolgersi alle operaie ma coinvolgere anche le casalinghe, le insegnanti, le donne più colte. Bisognava sostenere e valorizzare gli affetti famigliari ma costruire una famiglia nuova basata sulla pari dignità tra uomini e donne e superando il rapporto autoritario con i figli .Nel 1946 si iscrive al PCI e viene eletta parlamentare con 15.936 voti di preferenza(a Reggio Emilia ottiene il 45,7 % dei voti).

Fu una delle 21 Costituenti, entra a far parte della” Commissione dei settantacinque” incaricata di elaborare la bozza del testo costituzionale. Partecipa alla  Prima Sotto Commissione che si occupa della stesura dei diritti e dei doveri. Nilde Iotti fu relatrice sul tema della famiglia ed introdusse fin da subito i temi della parità tra i sessi, del sostegno alla donna lavoratrice e madre, della equiparazione giuridica  dei figli nati nel matrimonio e quelli nati fuori del matrimonio per garantire  pari tutela e dignità a tutti i bambini/e.

Fu eletta segretaria nazionale  dell’ UDI e incontrò Togliatti. Un incrocio di sguardi mentre scendevano le scale di Montecitorio accese nei loro cuori una fiamma potente. Lei, giovane di 26 anni, Lui capo indiscusso del PCI sposato con Rita Montagna da cui aveva avuto un figlio. Fu un amore intenso, vissuto con pari intensità ,come confermano le lettere d’amore che sono pubblicate nel libro di Luisa lama “NILDE IOTTI: una storia politica femminile”(Donzelli editore).Un amore forte che entrambi vollero vivere in libertà ma che cozzava con la morale di quei tempi e che fu aspramente ostacolato dai dirigenti comunisti.

Persino Stalin era preoccupato di quella giovane donna, che aveva studiato in una scuola cattolica e che avrebbe potuto essere una spia del Vaticano , che coinvolgeva così tanto e tanta influenza esercitava sul Capo dei comunisti Italiani. Adottarono tramite affiliazione Marisa Malagoli, sorella di un operaio rimasto ucciso durante uno scontro con la polizia nel corso di uno sciopero a Modena. Erano una “strana famiglia” che viveva con grande intensità il loro legame famigliare. La carriera politica di Nilde subì una battuta d’arresto in virtù del legame d’amore con il Capo.  Fu eletta nel Comitato Centrale nel 1956 con un numero minimo di voti. Quando ci fu l’attentato a Togliatti fu la prima a correre a soccorrerlo ma fu allontanata dai dirigenti. Potè  andare al suo capezzale solo perché esplicitamente chiamata da Togliatti.  Fu riconosciuta come la sua legittima compagna  nel 1964 quando Togliatti morì.

Si occupò con particolare dedizione dei temi del Diritto di famiglia, delle pensioni alle casalinghe,  del divorzio assumendo come riferimento  l’idea di famiglia come comunità di affetti. Nel 1962 entrò nella Direzione nazionale del partito. Europeista convinta, nel 1969 viene eletta membro dell’assemblea parlamentare europea. Nel 1979 viene eletta, prima donna, Presidente della Camera. Nel suo discorso di insediamento dedicò le sue prime parole alle donne italiane, cui rimase sempre profondamente legata e fedele. A partire dalle sue amiche di Reggio Emilia. Alle donne in particolare insegnava l’eleganza della politica, che doveva nutrirsi di cultura, ricercare e promuovere il bene comune, essere capace di ascolto. Amava l’eleganza  degli abiti e della persona e ci sollecitava a curare il nostro aspetto, ad avere cura della nostra persona. Aveva una grande stima di sé ma non parlava di carriera ma di “progressione”.  Aveva una grande stima di sé ma sapeva essere semplice, disponibile e considerava fondamentale per la democrazia praticare una  politica popolare capace di rendere attive e protagoniste tutte le persone.

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Presidente imparziale, si impegnò subito per la riforma della seconda parte della Costituzione per rendere il Parlamento più efficiente .Uno dei suoi primi atti fu il Lodo Iotti, per impedire l’ostruzionismo separando la discussione sugli emendamenti dall’espressione del voto di fiducia. Cui seguì la riforma dei Regolamenti parlamentari. A meno di un anno  dalla fine del suo mandato riceve da Cossiga la nomina di senatrice a vita ma la rifiuta, preferendo restare a Montecitorio, dove l’avevano chiamata i cittadini e la fiducia dei colleghi.

Nel partito fu una innovatrice e si schierò subito dalla parte di Occhetto alla svolta della Bolognina per il superamento del PCI e costruire un nuovo soggetto politico della sinistra.

Fu l’unica donna ad avere conferito l’incarico esplorativo per formare un Governo.

Nominò Tina Anselmi, l’altra grande madre della Repubblica, Presidente della Commissione che indagava sulla P2 di Licio Gelli.

Tornata al semplice lavoro parlamentare costruì  un forte legame con” le giovani compagne” ,  ci  sostenne nelle battaglie per una nuova  legge contro la violenza sessuale, per la democrazia paritaria, per cambiare i tempi di vita e conciliare il lavoro e la famiglia, nel progetto della Carta delle Donne “dalle donne la forza delle donne” (1986). Era austera ma sapeva anche essere materna e teneva molto alla cura della sua femminilità. La ricordo quando durante i congressi  o le riunioni più impegnative tirava fuori dalla borsetta il rossetto e con grande naturalezza se lo spalmava sulle labbra e pettinava i suoi capelli.

Si impegnò per la riforma delle istituzioni, presiedendo la Commissione Bicamerale per le riforme istituzionali voluta da De Mita nel 1993. Il 28 gennaio del 1998 pronuncia un importante discorso in Aula a sostegno delle riforme emerse dalla Commissione Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema. Credo che oggi sarebbe contenta di vedere finalmente varata la riforma del Senato e sarebbe fiera del protagonismo femminile.

Stanca e malata Nilde Iotti continua a lavorare ed a studiare sui banchi di Montecitorio fino al 18 novembre del 1999, quando lascia l’Aula dopo 53 anni, accompagnata da un lunghissimo applauso.

“Lascio con rammarico dopo 50 anni di lavoro il mio incarico di parlamentare. Mi auguro che lo spirito di unità per cui mi sono sempre impegnata prevalga nei confronti dei pericoli che minacciano la vita nazionale. Vi ringrazio per la cortesia.”

Muore pochi giorni dopo,  la notte del 3 dicembre 1999, salutata da una grandissima partecipazione popolare, confermata due giorni dopo nei funerali di  Stato. Riposa nel  cimitero del Verano di Roma accanto a Palmiro Togliatti.

Il suo messaggio di una politica bella, pulita, onesta , ricca di cultura può continuare a conquistare il cuore di tanti giovani e ragazze, esserne punto di riferimento.

Livia Turco

da L’Unità del 3 dicembre 2015

«Il principio di eguaglianza a me sta particolarmente a cuore […] E’ la sanzione solenne, costituzionale dell’ingresso delle donne nella vita politica. Avevano votato per l’Assemblea Costituente. La Costituzione con quell’articolo afferma il loro essere cittadine alla pari con tutti gli altri cittadini. Per me è un punto che fa della Costituzione italiana ancora adesso una Costituzione moderna.»

Nilde Iotti

QUI puoi vedere un video della Tribuna Politica del 1962

 

Siamo tutti Antifascisti!

presidio Siena

A seguito della scoperta da parte delle forze dell’ordine di una rete criminale ed eversiva nella nostra provincia, la nostra Associazione – fedele al proprio mandato – si associa all’appello del Presidente della Provincia di Siena. C’è bisogno oggi più che mai di testimoniare in prima persona il rigetto forte e deciso delle nostre comunità verso ogni comportamento lesivo dei valori fondanti dello stato democratico e della convivenza civile.

Per questo saremo in piazza Duomo anche noi, e invitiamo tutti a diffondere l’appello e a partecipare al Presidio antifascista che si terrà mercoledì 20 novembre  dalle 17 alle 19 davanti alla Prefettura, in Piazza Duomo a SIENA.

APPELLO DEL PRESIDENTE FRANCESCHELLI:MERCOLEDÌ 20 NOVEMBRE DAVANTI ALLA PREFETTURA PER RIBADIRE LE RADICI DEMOCRATICHE E ANTIFASCISTE.

“Siena e la sua Provincia, democratiche ed antifasciste, hanno profonde radici nella Re-pubblica e nelle sue istituzioni. Chi pensa di attentare ai fondamenti dello Stato troverà sempre donne e uomini pronte a difenderle e non troverà mai terreno fertile. Mi rivolgo alle Istituzioni, alle forze politiche democratiche, alle rappresentanze sindacali, all’ associa-zionismo, alle associazioni di categoria, alle istituzioni religiose, alle organizzazioni della società civile, alle cittadine e ai cittadini di tutta la provincia affinché mercoledì 20 dalle ore 17 alle 19, siano dinanzi alla Prefettura, che rappresenta fedelmente sul territorio la nostra Repubblica, a testimoniare che la tradizione democratica e antifascista di Siena e della sua Provincia è forte e salda in tutti noi, che non ci facciamo intimidire da chi ha follie criminali ed eversive. A chiunque semina odio noi rispondiamo con la forza della Repubblica nata dalla Resistenza. E’ altresì l’occasione per ringraziare le forze dell’ordine, la magistratura e le istituzioni tutte, che con la dedizione ed il sacrificio delle sue donne ed uomini che vi prestano servizio, difendono e perseguono chi pensa di attentare alle istituzioni dello Stato ed ai valori democratici della nostra Repubblica.”

il nostro Calendario: 12 novembre

1989: la svolta della Bolognina

Il 12 novembre del 1989 
Il 12 novembre del 1989 era domenica. Dalle 11 del mattino un gruppo di partigiani si era riunito in una sala comunale in via Tibaldi 17 a Bologna per le celebrazioni del quarantacinquesimo anniversario della battaglia di Porta Lame, un episodio della Resistenza italiana combattuto in alcuni quartieri di Bologna, tra cui Lame, Bolognina e Corticella, poi inglobati nel quartiere Navile.

Svolta_della_Bolognina_-_12_Novembre_1989

Achille Occhetto partecipò a sorpresa all’incontro. In sala erano presenti solo due cronisti, il primo dell’Unità, l’altro dell’Ansa. Occhetto chiese la parola e parlò per circa sette minuti per quello che doveva essere un discorso commemorativo, di circostanza. Occhetto disse che era tempo di «andare avanti con lo stesso coraggio che fu dimostrato durante la Resistenza (…) Gorbaciov prima di dare il via ai cambiamenti in URSS incontrò i reduci e gli disse: voi avete vinto la Seconda guerra mondiale, ora se non volete che venga persa non bisogna conservare ma impegnarsi in grandi trasformazioni». Disse anche le parole poi diventate più celebri: era necessario «non continuare su vecchie strade ma inventarne di nuove per unificare le forze di progresso». Al cronista che gli chiese se le sue parole lasciassero presagire che il PCI avrebbe potuto anche cambiare nome, lui rispose: «Lasciano presagire tutto».

Schermata 2014-11-12 alle 10.35.29La “svolta”, secondo il racconto più diffuso, fu annunciata da Occhetto senza consultare il partito e questo fatto gli verrà rimproverato. Il giorno dopo l’annuncio la prima pagina dell’Unità (il direttore a quel tempo era Massimo D’Alema) titolava «Il giorno di Modrow. La Repubblica democratica tedesca elegge un nuovo premier». Al centro si trovava l’articolo sulla “svolta della Bolognina” intitolato: “Occhetto ai veterani della Resistenza: «Dobbiamo inventare strade nuove»”.

Della “svolta” si discusse ufficialmente il 13 novembre in segreteria del PCI e per altri due giorni in Direzione. Il tutto venne però rinviato al Comitato Centrale, che si aprì il 20 dello stesso mese. In quei giorni iniziarono comunque a delinearsi le diverse posizioni all’interno del PCI: da una parte quella che potremmo definire “la destra” del partito, fedele a Occhetto, e dall’altra parte “la sinistra” che assunse un iniziale atteggiamento di prudenza. Almeno fino al rientro da Madrid di Pietro Ingrao, storico leader della sinistra del PCI, che dichiarò: «Non sono d’accordo con la proposta avanzata da Occhetto. Spiegherò il mio dissenso nel Comitato centrale».

il Nome e la Cosa

Il 20 novembre si aprì il Comitato Centrale a Roma in via delle Botteghe Oscure. I suoi 300 membri discussero della svolta per cinque giorni (venendo accolti da 200 militanti in protesta). Nella sua relazione introduttiva Occhetto affermò di «condividere il tormento» dei compagni, ma chiese: «Fino a quando una forza di sinistra può durare senza risolvere il problema del potere, cioè di un potere diverso?». Da qui l’idea di fare un nuovo partito con altri partiti di sinistra (la «sinistra diffusa») per poi andare al governo col PSI e altri e con la DC all’opposizione. Occhetto chiuse avvertendo però che «prima viene la cosa e poi il nome. E la cosa è la costruzione in Italia di una nuova forza politica». Da quel momento in poi il dibattito sulla svolta della Bolognina sarà anche chiamato come il “dibattito sulla Cosa”. Nanni Moretti ci girò un documentario, intitolato appunto La Cosa, raccontando le discussioni – senza alcun commento – all’interno di alcune sezioni del Partito Comunista Italiano proprio nei giorni successivi alla proposta di Occhetto:

Il Comitato Centrale si concluse il 24 novembre con il voto di 326 membri su 374: i sì furono 219, i no 73 e gli astenuti 34. Il Comitato Centrale assunse la proposta del segretario «di dar vita ad una fase costituente di una nuova formazione politica», ma allo stesso tempo accettò la proposta delle opposizioni di indire un congresso straordinario entro quattro mesi. Il XIX e penultimo congresso del PCI si tenne dal 7 all’11 marzo del 1990. Le mozioni discusse furono tre: quella del segretario Achille Occhetto; quella firmata da Alessandro Natta e Pietro Ingrao, che invece si opponeva ad una modifica del nome, del simbolo e della tradizione; quella proposta da Armando Cossutta, simile alla seconda. Vinse la mozione di Occhetto con il 67 per cento delle preferenze: Achille Occhetto venne riconfermato segretario e pianse.

(da Il Post, 12 novembre 2014)

Trent’anni dopo: il commento di Achille Occhetto

https://www.la7.it/omnibus/video/achille-occhetto-infamia-storica-sottovalutare-la-svolta-della-bolognina-oggi-necessaria-una-nuova-08-11-2019-292104

L’ultimo Congresso del PCI (1991)

1989. La svolta della Bolognina
con Silvio Pons
di Massimo Gamba (RAI STORIA)

 

Il nostro Calendario: 9 novembre

1989: cade il Muro di Berlino

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Il Muro di Berlino (in tedesco: Berliner Mauer, nome ufficiale: Antifaschistischer Schutzwall, Barriera di protezione antifascista) era un sistema di fortificazioni fatto costruire dal governo della Germania Est (Repubblica Democratica Tedesca, filosovietica) per impedire la libera circolazione delle persone tra il territorio della Germania Est e Berlino Ovest (Repubblica Federale di Germania). È stato considerato il simbolo della cortina di ferro, linea di confine europea tra le zone controllate da Francia, Regno Unito e U.S.A. e quella sovietica, durante la guerra fredda.

Il muro, che circondava Berlino Ovest, ha diviso in due la città di Berlino per 28 anni, dal 13 agosto del 1961 fino al 9 novembre 1989, giorno in cui il governo tedesco-orientale si vide costretto a decretare la riapertura delle frontiere con la repubblica federale. Già l’Ungheria aveva aperto le proprie frontiere con l’Austria il 23 agosto 1989, dando così la possibilità di espatriare in occidente ai tedeschi dell’Est che in quel momento si trovavano in altri paesi dell’Europa orientale.

Tra Berlino Ovest e Berlino Est la frontiera era fortificata militarmente da due muri paralleli di cemento armato, separati dalla cosiddetta “striscia della morte”, larga alcune decine di metri. Durante questi anni, in accordo con i dati ufficiali, furono uccise dalla polizia di frontiera della DDR almeno 133 persone mentre cercavano di superare il muro verso Berlino Ovest. In realtà tale cifra non comprendeva i fuggiaschi catturati dalla DDR: alcuni studiosi sostengono che furono più di 200 le persone uccise mentre cercavano di raggiungere Berlino Ovest o catturate e in seguito assassinate.

Il 9 novembre 1989, dopo diverse settimane di disordini pubblici, il governo della Germania Est annunciò che le visite in Germania e Berlino Ovest sarebbero state permesse; dopo questo annuncio molti cittadini dell’Est si arrampicarono sul muro e lo superarono per raggiungere gli abitanti della Germania Ovest dall’altro lato in un’atmosfera festosa. Durante le settimane successive piccole parti del muro furono demolite e portate via dalla folla e dai cercatori di souvenir; in seguito fu usata attrezzatura industriale per abbattere quasi tutto quello che era rimasto. Ancora oggi c’è un grande commercio di piccoli frammenti, molti dei quali falsi.

La caduta del muro di Berlino aprì la strada per la riunificazione tedesca che fu formalmente conclusa il 3 ottobre 1990.

(da Wikipedia)

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Il nostro Calendario: 19 ottobre

1944: via Maqueda, Palermo, la prima strage di Stato

Una strage di cui non esiste alcuna testimonianza fotografica.

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Giornale di Sicilia del 20 ottobre, n.130, sotto il titolo Luttuosi incidenti a Palermo durante una manifestazione contro il carovita si poteva leggere: «Poco prima di mezzogiorno molte migliaia di scioperanti sono affluiti in via Maqueda […]. La folla con alte grida ha chiesto insistentemente il pronto intervento delle Autorità per reprimere gli abusi del mercato annonario, che provoca insostenibili disagi fra le classi lavoratrici a reddito fisso. Poco dopo le forze di polizia […] sono state rafforzate da reparti di soldati inviati d’urgenza a bordo di autocarri. Il primo autocarro carico di soldati, proveniente da piazza Vigliena si inoltrava in mezzo alla folla. Ad un tratto sono rintonate delle detonazioni…».

Nelle stesse ore da Roma il governo rendeva nota la propria versione dei fatti tramite un comunicato, fuorviante e cinico, del sottosegretario per la stampa e le informazioni. «In occasione di una dimostrazione diretta ad ottenere miglioramenti di carattere economico, compiuta ieri a Palermo da impiegati delle banche e dall’esattoria, gruppi estranei sobillati, da elementi non ancora chiaramente identificati, prendevano l’iniziativa d’inscenare una manifestazione sediziosa. Davanti alla sede dell’Alto Commissariato [Palazzo Comitini, che ospitava anche la prefettura] venivano esplosi colpi di d’arma da fuoco contro reparti dell’Esercito, che erano stati costretti a reagire. Si deplorano 16 morti e 104 feriti. L’ordine pubblico è stato ristabilito. Il Comitato provinciale di Liberazione nazionale si è subito riunito ed ha dichiarato di mettersi a disposizione dell’Autorità governativa locale per la ricerca dei responsabili della manifestazione sediziosa».

Si apprenderà, poi, che il numero delle vittime era più alto e la dinamica dei fatti non veritiera, come ha avuto modo di raccontare in modo documentato Lino Buscemi: «Una spontanea manifestazione di popolo fu brutalmente repressa con bombe a mano e moschetti da soldati dell’esercito italiano. Italiani contro fratelli italiani di Palermo […]. Il sangue scivolò a fiotti lungo la via Maqueda e nelle traverse vicine. Gravissimo il bilancio: 24 morti e 158 feriti, accertati sia dalla commissione d’inchiesta appositamente nominata che dalla discussa sentenza del tribunale militare di Taranto», che peraltro «avrebbe escluso dall’elenco le vittime Cataldo Natale di anni 35 e Monti Carlo di anni 34, in quanto non vi erano prove sufficienti per accertare che fossero realmente deceduti a causa della sparatoria di via Maqueda. Le sole due donne decedute, Anna Pecoraro e Cristina Parrinello, lavoravano proprio di fronte la prefettura, in una stireria. Atroce la loro morte: i soldati scagliarono la loro bomba proprio dentro il negozio!». Nessun colpo di arma da fuoco fu dunque esploso, il 19 ottobre, contro i militari. (…)

 puoi leggere qui il resto dell’articolo di Giuseppe Oddo.

Continua a leggere “Il nostro Calendario: 19 ottobre”

il nostro Calendario: 14 Luglio 1789

230 anni fa, la presa della Bastiglia

 

Dalla primavera del 1788 in Francia la situazione è ormai catastrofica. La crisi dell’agricoltura causata dal freddo e disastrose grandinate riducono i villaggi alla miseria. A Parigi il prezzo del pane raddoppia e aumenta anche lo scontento popolare, mentre in molte province scoppiano disordini. A Versailles, invece, il re Luigi XVI e la regina Maria Antonietta danno scandalo per il fasto dei loro banchetti, per lo sfoggio di abiti lussuosissimi e per la vita economicamente dissoluta, mentre il paese è sull’orlo della bancarotta. Luigi XVI ricorre a Jacques Necker, politico ed economista svizzero, come ministro dell’economia. Il suo principale tentativo è quello di ottenere la ripartizione egualitaria nel pagamento delle tasse, da cui nobiltà e clero erano esclusi. Le classi borghesi e popolari, riunite nel “Terzo Stato”, sono i ceti che soffrono maggiormente il peso tributario. Il 5 maggio 1789 viene indetta l’Assemblea degli Stati Generali. Sono passati ben 175 anni dall’ultima volta. Il “Terzo Stato” ha la maggioranza numerica di deputati, ma il suffragio si svolgerà non per voto pro capite, bensì per ordine sociale, soluzione quest’ultima che avvantaggerebbe l’alleanza fra clero e nobiltà.  Ma il 20 giugno del 1789, il “Terzo Stato”, insieme ad una piccola percentuale di esponenti degli altri due ceti, si ritira dagli Stati Generali per costituire “L’Assemblea dei deputati della Nazione”. La loro autoproclamazione è di fatto un affronto al Re in persona. La soluzione politica che Luigi XVI aveva affidato al ministro Necker, è ormai irrealizzabile. La nuova Assemblea si ritira nella sala dedicata al gioco della palla corda, per proclamare un giuramento solenne.

La destituzione del ministro delle Finanze Jaques Necker, da parte del sovrano Luigi XVI, è per Parigi la prova inconfutabile della congiura aristocratica, il segno della bancarotta e della controrivoluzione. Così la mattina del 14 luglio 1789 la popolazione parigina insorge, riversandosi nelle strade con una bandiera tricolore: nasce la drapeau française. Il rosso e il blu simboleggiano Parigi, il bianco è il colore della dinastia borbonica.  Quella mattina settemila insorti attaccano l’armeria de l’Hotel Des Invalides.

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Targa all’angolo tra rue Saint-Antoinet e rue Jacques Coeur, Parigi 4° arrond.

Il bottino è di quasi trentamila fucili e diversi cannoni, ma della polvere da sparo nessuna traccia. Il popolo però sa dove trovarla: a Saint Antoine, nel centro della città, dove sorge la fortezza della Bastiglia. Prende avvio l’assedio di questo tetro carcere, simbolo dell’Ancien Régime, costruito sotto il regno di Carlo V, che detiene al momento dell’insurrezione solo sette prigionieri: quattro falsari, il Conte di Solages e due folli. Annientata l’ultima resistenza delle guardie del comandante De Launay, la Bastiglia è presto conquistata da migliaia di rivoltosi.

 

 

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Prise de la Bastille, gravure « «d’après des estampes d’époque » parue en 1897 dans les «Annales politiques et littéraires »

Luigi XVI, sconvolto, decide di riassumere il ministro Jacques Necker e spera in una tregua, ma la protesta è ormai dilagata nelle maggiori città del paese e non solo. Le notizie che giungono da Parigi, unite all’insostenibile condizione determinata da più di un decennio di recessione, spingono alla ribellione. A dare adito all’insurrezione è la rabbia accumulata, la carestia e la disperazione della popolazione francese. Con la presa della Bastiglia e il martirio dei parigini uccisi per la libertà, si accende la prima scintilla della Rivoluzione, un colpo violento che sarà il primo di una lunga serie. Da quel 14 luglio 1789, la rivolta, divenuta rivoluzione, ha trionfato sul potere assoluto, delineando le sorti di una Nazione. E, per la Francia così come per tutti i popoli dell’Europa, niente sarà più come prima.

La “festa della Federazione”, il 14 luglio 1790, celebra in pompa magna il primo anniversario dell’insurrezione. A Parigi, al Campo di Marte, Talleyrand celebra una messa sull’altare della patria.

Su proposta di legge del deputato della Seine, Benjamin Raspail, il 14 luglio diventa festa nazionale della Repubblica.

 

Ascolta La Marsigliese, che diventerà inno nazionale francese il 15 luglio 1795, cantata da Georges Thill

Qui il primo episodio di una serie in quattro puntate coprodotta dalla Rai, sulla Rivoluzione francese.

Per saperne di più vedi anche gli altri episodi della serie.

Da leggere:

Albert Mathiez, Georges Lefebvre, La Rivoluzione francese, Einaudi, 1970

Wu Ming, L’armata dei sonnambuli, Einaudi, 2015

il nostro Calendario: 4 giugno

1989: Piazza Tienanmen

Proteste e partito: il lungo 1989 della Cina

di Simone Pieranni (il manifesto, 4.05.2019)

 

Crediamo un po’ tutti di sapere qualcosa di quanto è successo in Cina, in particolare a Pechino, trent’anni fa. Classifichiamo genericamente i «fatti di Tian’anmen» come caratterizzati da proteste e richieste di riforme democratiche da parte degli studenti e dalla dura risposta del Partito comunista che portò al «massacro di Tian’anmen».

Sappiamo anche che Pechino ha cancellato quelle giornate dalla storia: non se ne parla, non se ne può parlare, non si trova niente al riguardo sulla rete cinese «armonizzata», ma non sarà più facile trovare un giovane cinese che ne sappia qualcosa. Questi sono tutti fatti piuttosto noti. In verità, però, nelle giornate di maggio e giugno 1989 confluirono molti più elementi.

Intanto in piazza c’era molta gente, studenti e non solo. Certo, le storie dei «leader» della piazza pechinese hanno avuto ampia attenzione mediatica anche anni dopo i fatti: alcuni sono riusciti a scappare, grazie alla solidarietà di molte persone; alcuni hanno raggiunto Hong Kong e da lì sono poi volati negli Stati Uniti.

C’è chi ha raccontato quelle giornate, chi ha cambiato vita, chi è diventato miliardario, chi si è convertito al cristianesimo. Meno particolari – invece – si conoscono delle vite dei morti (300 per il Partito comunista, molti di più, migliaia per attivisti, familiari delle vittime e alcune organizzazioni umanitarie), così come sulle storie delle migliaia di persone arrestate (l’ultimo a essere uscito di prigione nel 2016 era un operaio, mentre molti dei protagonisti di quei giorni si ritrovano in The People’s Republic of Amnesia: Tian’anmen Revisited di Louisa Lim).

Si è discusso poco – sui media – delle problematiche insite all’interno dello stesso «movimento studentesco» (a questo proposito Pechino è in coma di Ma Jian è un ottimo libro per comprendere anche alcuni errori e limiti della protesta studentesca).

Ancora meno si conoscono – o non si sottolineano – le condizioni economiche e il «clima» delle fabbriche in quegli anni cruciali anche per la Cina di oggi. Analogamente la scelta di scatenare l’esercito contro le persone in strada e nelle piazze effettuata dal Partito comunista, avvenne in un momento drammatico per il Pcc: la Rivoluzione Culturale, almeno i suoi strascichi, erano terminati solo da dieci anni.

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Le riforme volute da Deng Xiaoping stavano velocemente cambiando il paese, portando a valutare il «rendimento» degli stessi funzionari in maniera diversa da quanto accadeva in passato.

Il Partito stava passando dalla «gestione politica» del paese a quella «economica»: ne conseguirono problematiche del processo di cambiamento e un generale dilagare della corruzione, uno dei tanti motivi della contestazione di quel periodo.

Anche per questa complessità, «i fatti di piazza Tian’anmen» sono ancora al centro di analisi e, talvolta, di nuove rivelazioni.

In mezzo al marasma di diverse interpretazioni, valutazioni e consuete semplificazioni, rimane quanto avvenuto: il massacro perpetrato ai danni di studenti, operai e semplici cittadini pechinesi; rimane la drammatica decisione del Partito comunista di procedere alla repressione al termine di uno scontro interno che segnerà per sempre la vita del Pcc; rimane la «primavera cinese», frutto di un periodo di intensa vivacità politica e culturale durante gli anni ’80 in Cina.

Il 1989 è fondamentale nella storia recente della Cina, perché è l’anno nel quale si rinnova il contratto sociale tra popolazione cinese e Partito comunista, proiettando il paese verso la crescita economica che l’ha portata, oggi, ad essere una potenza globale.

Cominciamo dalla fine: il massacro di Pechino

Nel giugno del 1998 il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton si recò in Cina e partecipò alla cerimonia di benvenuto in piazza Tian’anmen a Pechino. I media americani criticarono il presidente: Clinton – questa l’accusa – in nome del riavvicinamento alla Cina dopo l’embargo dovuto ai fatti del 1989 – celebrava proprio sulla Tian’anmen l’oblio che il Partito comunista aveva sancito su quanto era accaduto.

A questo proposito, è interessante osservare come dal 1949 in avanti Washington si sia sempre dimostrata molto preoccupata della Cina durante la sua fase «maoista». Si trattava di una preoccupazione ideologica, naturalmente, basata sulla paura che il comunismo si diffondesse sempre di più; poi, con le aperture di Deng Xiaoping, gli Usa – ben felici di spezzare il fronte comunista internazionale e isolare l’Unione sovietica – hanno cominciato un lungo processo di avvicinamento alla Cina, finendo per accompagnare Pechino verso il Wto (l’adesione cinese arriverà nel 2001, mentre si contestava la globalizzazione a Genova e quando la storia degli Usa stava per cambiare per sempre).

Per supportare l’ingresso della Cina nei meccanismi economici mondiali, gli Usa hanno deciso di ingoiare anche episodi come quelli del 1989, creandosi così il «nemico» futuro e dimostrando di sbagliare più volte la valutazione circa la possibilità che le riforme economiche avrebbero portato automaticamente la democrazia.

Anzi, proprio il 1989 dimostra il contrario: fu quanto accadde il 4 giugno 1989 a sancire la via autoritaria al capitalismo globale della Cina. Secondo Naomi Klein, fu quello «shock» a immettere definitivamente la Cina nella carreggiata neoliberista della globalizzazione.

Tornando al 1998: sulla visita di Clinton in Cina e le polemiche relative al luogo simbolo di quanto accadde nel 1989, intervenne Jay Mathews, giornalista del Washington Post presente a Pechino nel 1989. Mathews si sentì in dovere di specificare – dieci anni dopo – qualcosa riguardo i fatti di Tian’anmen, partendo da un’apparente questione di lana caprina: associare la parola «massacro» a «Tian’anmen», sostiene, è un errore, perché nella piazza non vi fu alcun massacro.

I morti ammazzati dall’esercito non sono messi in dubbio ma Mathews, come tanti altri testimoni, giornalisti e non, ricorda che «il governo cinese stima più di 300 morti. Le stime occidentali sono leggermente più alte. Molte vittime sono state uccise da soldati nelle distese di Changan Jie, il viale dell’Eterna pace, a circa un miglio a ovest della piazza, e in scontri sparsi in altre parti della città, dove, va aggiunto, alcuni soldati sono stati picchiati o bruciati a morte da lavoratori arrabbiati».

Precisiamo subito una cosa: nessuno – a parte qualche iper complottista o negazionista improvvisato – mette in dubbio quanto accaduto a Pechino, e in altre città della Cina, nel 1989.

Ma, come scrive, Mathews, cominciare a precisare come l’informazione abbia «semplificato» i fatti, permette anche di comprendere una prima importante complessità di quanto accaduto nel 1989.

«Il problema – specifica Mathews – non è tanto quello di mettere gli omicidi nel posto sbagliato, ma suggerire che la maggior parte delle vittime fossero studenti. Come scrivono in Black Hands of Beijing: Lives of Defiance in China’s Democracy Movement, George Black e Robin Munro, quello che accadde non fu il «massacro» degli studenti, ma dei lavoratori e dei residenti ordinari – esattamente l’obiettivo che il governo cinese si era prefisso».

Black e Munro sostengono inoltre che la repressione più violenta si è verificata nella periferia occidentale di Pechino, non in piazza Tian’anmen. Lì, come ha sostenuto Jonathan Fenby, esperto di Asia e Cina, c’è stato un «massacro» contro operai e residenti. Centinaia di lavoratori sono stati macellati per le strade. Ecco perché alcuni studiosi e dissidenti cinesi preferiscono usare l’espressione «il massacro di Pechino» anziché il massacro di piazza Tian’anmen.

Il Partito

In che modo il Partito comunista ha assistito all’aumento delle proteste, concomitanti, a fine maggio, con la visita in Cina di Michail Gorbacev? Si tratta di uno dei temi più interessanti di quanto ruota intorno al 1989: il Partito comunista attraversò molte vite in quei giorni, vi furono epurazioni, scontri terribili, la constatazione di un «comitato permanente» parallelo composto dagli «Otto Immortali» e addirittura la nomina – con metodi che di fatto furono incostituzionali – di Jiang Zemin, allora sindaco di Shanghai, a nuovo segretario del Partito comunista.

Il fatto che ad essere ammazzati per lo più furono i lavoratori, permette di capire anche il modo attraverso il quale il Partito filtrò quando proveniva dall’esterno, non tanto e non solo da piazza Tian’anmen. Nel 1989 il Partito aveva già provveduto da due anni a eliminare politicamente Hu Yaobang, un riformista considerato troppo indulgente con le proteste che dal 1986 avevano cominciato a caratterizzare quella stagione cinese.

Hu Yaobang morirà il 15 aprile del 1989 per un attacco di cuore durante una riunione del Partito e il cordoglio per la sua morte diventerà la miccia definitiva per la protesta degli studenti che da allora occuperanno Tian’anmen.

Fu Deng Xiaoping a decidere l’epurazione, pur essendo Hu Yaobang il suo erede designato (e Hu sarà riabilitato solamente nel 2005). Proprio il vecchio Deng era il grande manovratore dal Pcc, nonostante vivesse in una abitazione privata, distante da Zhongnanhai, il Cremlino cinese; era dotato di uno staff in grado di rifornirlo di informazioni costanti su quanto stava accadendo nel paese.

Nell’abitazione del vecchio Deng si svolgeranno le riunioni più importanti in quei giorni concitati del giugno 1989. Deng, grande classe politica e abilità strategica, comprese subito il problema: se la protesta degli studenti si fosse allargata agli operai sarebbe stato un disastro per il Pcc.

Le riforme, ripeterà più volte, devono procedere e per procedere serve ordine, serve che la popolazione lavori, invece che protestare.

Sistemato Hu Yaobang tutto sembrava potenzialmente risolto, ma il suo sostituto Zhao Ziyang era ugualmente un riformatore, fatto che costitituì ben presto un problema per gli «Otto Immortali».

Nel 2001 è stato pubblicato un libro, Tian’anmen Papers, che contiene materiale davvero straordinario per comprendere al meglio quanto accade all’interno del Pcc in quelle giornate.

Come racconta Marina Miranda in Mondo Cinese nel 2001, si tratta di «una raccolta di documenti neibu, cioè altamente riservati e a circolazione limitata all’interno del Partito Comunista Cinese». Questi riservatissimi documenti sarebbero stati rilasciata da una persona molto interna ai meccanismi fondamentali del Partito.

Il whistlebowler della situazione ha scelto un nome particolare. Zhang Liang, «presumibilmente un alto funzionario del Partito; la scelta di tale nome – scrive Miranda – ha un chiaro significato politico: è quello di uno stratega scomparso nel 187 a.C.3, noto per il suo odio contro l’esecrata dinastia Qin (221-207 a.C.), al cui governo tirannico viene paragonato il regime del Partito Comunista». Ai Qin fu associato – naturalmente – anche Mao. E di recente perfino Xi Jinping. I Qin, secondo il sinologo Kai Vogelsang, non solo realizzarono la prima idea di Impero cinese come siamo abituati a concepirla oggi, ma crearono un sistema sociale ipercontrollato.

Tornando al 1989: i documenti di Tian’anmen Papers sono preziosi, e ci si è interrogati non poco sulla loro autenticità. A questo proposito Miranda risolve la querelle come molti altri esperti di Cina, ovvero affidandosi, giustamente, al prestigio di chi quei documenti li ha raccolti: «come garanzia dell’autenticità del materiale può, tuttavia, essere considerata la fama di serietà accademica di cui godono i curatori del volume, Perry Link, docente di Lingua e Letteratura Cinese all’Università di Princeton e Andrew J. Nathan, docente di Scienza Politica alla Columbia University».

Gli anni ‘80 e le proteste

Ilaria Maria Sala, presente a Pechino nel 1989, ha raccontato di recente lo spirito di quella primavera cinese: il 1989, infatti, è l’acme di una stagione davvero particolare in Cina: alla fine degli anni ’80 «il paese era nel pieno del fermento sociale, politico e culturale, scrive Ilaria Maria Sala, un mondo che era inebriante di possibilità: riviste e giornali erano più interessanti, con lunghi pezzi investigativi in pubblicazioni come Baogao Wenxue (Reportage letterario)».

Nel 1988 «c’era una profondità di riflessione sulla storia cinese», vennero poste nuove domande sull’identità e la cultura cinese. Perry Link della Princeton University, uno degli studiosi cinesi che si è occupato dei Tian’anmen Papersraccontava, scrive Sala, che «In tutti i campi, ogni intellettuale stava facendo queste grandi domande. Si tratta di un enorme contrasto con quanto accade oggi».

Le possibilità sembravano infinite. Nel campus, «le bacheche pubblicizzavano corsi di lingua e danza e forum di discussione che permettevano agli studenti di parlare abbastanza liberamente su una varietà di argomenti».

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Contemporaneamente c’era un mondo del lavoro in pieno stravolgimento.

Da un punto di visto economico il periodo di Riforme aveva creato due tendenze evidenti: la proletarizzazione di larghe masse della popolazione e la nascita di una nuova categoria di capitalisti.

Il processo di proletarizzazione è avvenuto grosso modo attraverso tre fattori: la migrazione forzata dalle campagne alle città, il collasso delle imprese statali nelle città e la dissoluzione delle imprese di villaggio. Lo spostamento rurale verso le città è stato vasto, contando circa 120 milioni di persone dal 1980, si tratta della la più grande migrazione nella storia del mondo (Walker R. & Buck D., The Chinese road, Cities in the Transition to Capitalism, New Left Review, Agosto 2007).

Un secondo fattore responsabile della creazione di una nuova classe salariale in Cina è stato lo smantellamento delle imprese di proprietà statale (SOE).

Le SOE erano state il fulcro dell’industrializzazione maoista, pari a quasi quattro quinti della produzione non agricola. La maggior parte di questi colossi era situata nelle città, dove erano impiegati circa 70 milioni di persone nel 1980. Il primo smantellamento è cominciato nel 1988 e ha avuto una sua rapida esecuzione dopo lo shock del 1989, quando un altro giro di vite è arrivato all’interno di un’economia surriscaldata e inflazionistica.

Ulteriori riforme sono state effettuate nel decennio successivo, a confermare l’importanza di quanto avvenuto nel 1989: nel 1994 venne incoraggiata l’efficienza attraverso la riduzione della forza lavoro. Questa direttiva ha dato luogo ai licenziamenti di massa alla fine del 1990, quando il capitalismo cinese ha conosciuto la sua prima crisi di sovrapproduzione, «segnando una netta transizione dalla vecchia economia della scarsità alla nuova economia del surplus». Il risultato fu clamoroso: nei primi anni del 2000 l’occupazione nelle imprese statali era stata dimezzata, 40 milioni di persone si ritrovarono senza la tradizionale «ciotola di riso», simbolo e garanzia delle vecchie imprese di stato.

Per questo gruppo di individui, quasi sempre di mezza età, si apriva la prospettiva di trasformarsi in una sorta di «sottoclasse urbana»: come spiega Dorothy Solinger in Social Exclusion and Marginality in Chinese Societies (Hong Kong Polytechnic University, Centre for Social Policy Studies, 2003) «ironia della sorte, nella sua marcia verso la modernizzazione e la riforma economica, anche se la leadership cinese ha scatenato e incoraggiato le forze del mercato, contemporaneamente si è arrestato il pieno dispiegarsi di alcuni dei processi sociali principali che generalmente emergono altrove, come effetto della mercificazione.

Così in Cina, invece dell’aumento dei livelli di istruzione e l’imborghesimento di una larga parte della classe operaia come è successo in altri luoghi in concomitanza con lo sviluppo economico – e così vicini alla Cina, come la Corea del Sud , Giappone e Taiwan – questa informalizzazione dell’economia urbana ha rappresentato invece una regressione, per molta parte della popolazione urbana».

Peraltro questa fascia di popolazione urbana, doveva affrontare un difficile riposizionamento sociale e lavorativo, data la propria origine «culturale»: «la stragrande maggioranza di costoro sono stati privati di istruzione formale perché costretti a lasciare la scuola per partecipare alla rivoluzione culturale (e la maggior parte di loro ha vissuto un lungo periodo nelle campagne) nel corso del decennio dopo il 1966».

Questi processi che arrivano al loro culmine negli anni ‘90 sono figli di quanto accaduto in Cina a fine degli anni ‘80. Nell’ottobre del 1983 il Quotidiano del Popolo scriveva che i lavoratori cinesi non potevano certo lamentarsi: la recessione in gran parte del mondo capitalista nei primi anni ’80 consentiva alle autorità cinesi di ricordare ai lavoratori in patria che non avevano mai avuto tanto benessere, indicando l’alta disoccupazione in Occidente come prova della «superiorità del socialismo».

Per la dirigenza cinese quello era il momento giusto per ricordare i propri successi: come ha scritto Jackie Sheehan in Chinese Workers, a new history(London and New York, 1998), si era in una situazione nella quale «alcuni lavoratori già sentivano i benefici di un aumento delle retribuzioni e dei bonus previsti dalle riforme e tutti si aspettavano di beneficiarne nel prossimo futuro».

Ma queste aspettative finirono per scontrarsi con la realtà: «Tra i lavoratori l’idea di Deng Xiaoping sulle possibilità di arricchimento non era granché accettata» perché cominciavano ad emergere ingiustizie palesi: «Molti lavoratori furono profondamente offesi dalle differenze salariali. Il risentimento particolarmente acuto era stato generato dal crescente divario tra i bonus pagati ai lavoratori e quelli ricevuti dal top management dell’impresa, che a volte potevano essere venti o trenta volte superiori al salario di un lavoratore».

Ma gli effetti negativi delle riforme sulle relazioni tra lavoratori e quadri sono ben presto andati «oltre le dispute sull’aumento delle disparità di reddito, per quanto gravi fossero».

In un momento in cui veniva richiesta una sempre maggiore efficienza ai lavoratori, Deng lo ripeterà più volte nel corso delle ore concitate di maggio e giugno 1989, «le carenze di gestione diventavano un punto di discordia più significativo che mai». Dopo aver dunque manifestato solidarietà agli studenti, anche i lavoratori ben presto cominciarono a ribollire nel calderone cinese del 1989.

I «disordini» e l’esito finale

In questo contesto, la presenza degli studenti in piazza Tian’anmen cominciò a procurare preoccupazione nel Partito comunista, timoroso di tornare alla Rivoluzione Culturale.

Sarebbe stato lo stesso Deng a esprimere questo cruccio, usando per la prima volta nell’ambito di una discussione il termine «disordini».

E sarà lo stesso termine che userà l’editoriale del Quotidiano del Popolo che il 26 aprile condanna in modo inequivocabile le proteste degli studenti. Il 26 aprile sarà la data di non ritorno della relazione tra il Partito comunista e chi protestava.

Da quel momento Deng lavorerà ai fianchi il comitato permanente, fino al drammatico voto sulla legge marziale (che sarà poi revocata solo nel 1990). Nella sua corrispondenza del 20 luglio 1989 sul The New York Review Of Books, Roderick MacFarquhar scriveva che «Diviso al vertice, il Partito comunista cinese non poteva più far fronte alle molteplici pressioni finendo per disgregarsi.

Mentre il premier Li Peng agiva da frontista incallito, era chiaro che le decisioni furono prese non dal Consiglio di Stato, né dal Politburo, né dal comitato permanente di cinque uomini, ma dal duumvirato responsabile della Commissione per gli affari militari, Deng Xiaoping e il presidente Yang Shangkun».

Il voto sulla legge marziale esplicita questo meccanismo particolare che si venne a creare: fondamentalmente solo Zhao Ziyang era favorevole ad ascoltare gli studenti e addirittura a favore di una sorta di «sconfessione» dell’editoriale del 26 aprile (idea che fu bocciata in modo fragoroso in particolare da Bo Yibo, uno degli Otto Immortali e padre del più recentemente noto Bo Xilai).

Tra il 26 e il 27 il comitato permanente del Politburo si ritrova a votare per la legge marziale.

I cinque membri votarono così: Li Peng e Yao Yilin si dichiararono favorevole, Zhao Ziyang contrario. Qiao Shi si astenne. A quel punto la palla passava agli Otto Immortali: i giochi erano fatti.

Come si legge sui Tian’anmen Papers, «La mattina del 18 maggio, gli Otto Immortali Deng Xiaoping, Chen Yun, Li Xiannian, Peng Zhen, Deng Yingchao, Yang Shangkun, Bo Yibo e Wang Zhen incontrarono i membri del Comitato permanente del Politburo Li Peng, Qiao Shi, Hu Qili e Yao Yilin e i membri della Commissione degli affari militari, il generale Hong Xuezhi, Liu Huaqing e il generale Qin Jiwei»: in questa occasione, di fatto, venne approvata la legge marziale.

Il segretario generale Zhao Ziyang non partecipò all’incontro: da lì a poco sarebbe stato esautorato. Prima di ritrovarsi agli arresti domiciliari, dove rimarrà fino alla sua morte avvenuta nel 2005, Zhao si recò in piazza, tra gli studenti alle 4 del mattino del 19 maggio. Accompagnato dal direttore dell’ufficio centrale del Partito Wen Jiabao (che tra il 2002 e il 2012 è stato primo ministro della Repubblica popolare) Zhao disse agli studenti, «Siamo arrivati ​​troppo tardi».

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In precedenza, il 18 maggio, Li Peng e altri funzionari del governo si erano incontrati nella Grande Sala del Popolo con Wang Dan, Wuerkaixi e altri rappresentanti degli studenti. «Li disse che nessuno aveva mai sostenuto che la maggior parte degli studenti fosse stata impegnata in disordini, ma che troppo spesso le persone che non avevano intenzione di creare disordini lo avevano effettivamente provocato. Rimase fermo sul testo dell’editoriale del 26 aprilee disse che non era il momento giusto per discutere le richieste degli studenti. Wang Dan aveva detto che l’unico modo per far uscire gli studenti da Piazza Tian’anmen era quello di riclassificare il movimento studentesco come patriottico e permettere un confronto televisivo con gli studenti».

Non c’era più spazio per il compromesso: la decisione di «ripulire» la piazza arrivò direttamente da Deng Xiaoping e nella notte tra il 3 e il 4 giugno avvenne «il massacro di Pechino».

Da quel giorno per le strade della Cina si attuò una vera e propria caccia all’uomo, mentre nelle stanze del Partito comunista andava formandosi un’idea ben chiara: quanto accaduto non sarebbe dovuto succedere mai più.

il nostro Calendario: 28 maggio

45 anni fa, la strage di Piazza della Loggia (Brescia)

Era il 28 maggio 1974 a Brescia: durante una manifestazione unitaria del sindacato, scoppia una bomba a Piazza della Loggia. È una strage fascista; i morti sono otto tra cui cinque attivisti della Cgil; oltre cento i feriti. Tra le vittime ci sono : Giulietta Banzi Bazoli di anni 34, Livia Bottardi Milani di anni 32, Clementina Calzari Trebeschi di anni 31, Euplo Natali di anni 69, Luigi Pinto di anni 25, Bartolomeo Talenti di anni 56, Alberto Trebeschi di anni 37, Vittorio Zambarda di anni 60. Le vittime furono Giulietta Banzi Bazoli, insegnante di francese, 34enne madre di tre bambini; Livia Bottardi, 32 anni, insegnante di lettere; Alberto Trebeschi, 37 anni, insegnante di fisica, e la moglie Clementina Calzari, 31 anni, anche lei docente; Euplo Natali, 69 anni, pensionato ed ex partigiano; Luigi Pinto, 25 anni, insegnante; gli operai Bartolomeo Talenti, 56 anni e Vittorio Zambarda, 60 anni.

Cinque delle vittime erano insegnanti, tra cui tre donne e un ragazzo del sud Italia. Con loro un operaio, legato agli insegnanti come a rappresentare l’unione scuola-lavoro e il lavoro come principio di solidarietà, e un ex partigiano, a segnare la continuità coi principi della Resistenza. 

Questa la drammatica ricostruzione di quella terribile mattina di maggio, e le riprese della mobilitazione antifascista per i funerali di Stato, in un video di Luigi Perelli (fonte: Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico).

 

I processi per la strage del 28 maggio 1974

di Benedetta Tobagi

La vicenda giudiziaria relativa alla strage di piazza della Loggia si è dispiegata nell’arco di 43 anni, concludendosi nel 2017. Si compone di ben cinque fasi istruttorie e tredici fasi di giudizio, concluse da altrettante sentenze, nell’ambito di tre processi.

Primo processo, o “processo Buzzi”: tre sentenze (I grado, II grado e Cassazione) riguardanti le posizioni oggetto della prima istruttoria (Ermanno Buzzi e altre 15 persone); due sentenze (giudizio d’appello in sede di rinvio; Cassazione) relative alle posizioni (già oggetto della prima istruttoria) investite dal parziale annullamento della prima sentenza d’appello da parte della Corte di Cassazione.

La seconda istruttoria si conclude con una sentenza che proscioglie l’imputato.

Secondo processo, o “processo Ferri”: tre sentenze (I grado, II grado e Cassazione) riguardanti alcune delle posizioni (Cesare Ferri; Alessandro Stepanoff; Sergio Latini) oggetto della terza istruttoria;

La quarta istruttoria si conclude con una sentenza che proscioglie tutti gli imputati.

Terzo processo, o “processo agli ordinovisti”: tre sentenze (I e II grado e Cassazione) relative alla quinta istruttoria; due sentenze (giudizio d’appello in sede di rinvio; Cassazione) relative a due imputati della quinta istruttoria, condannati in via definitiva dalla Suprema Corte.

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La prima istruttoria, formalizzata il 14 giugno 1974 (procedimento penale nr. 319/74-A, cosiddetto “processo Buzzi”) si conclude il 17 maggio 1977 con l’ordinanza-sentenza del giudice istruttore Domenico Vino, che accoglie in toto le richieste formulate dal pubblico ministero Francesco Trovato, sulla base di un’indagine condotta in larga parte dal capitano dei Carabinieri Francesco Delfino. Il giovane neofascista Cesare Ferri è prosciolto per non avere commesso il fatto, mentre sono rinviati a giudizio per strage (ex art. 422 c.p., ossia strage comune; solo a partire dal 1984 l’attentato di Brescia sarà derubricato ex art 285 c.p., ossia strage avente lo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato), dinanzi alla Corte d’Assise di Brescia, Ermanno Buzzi – un personaggio istrionico, estremista di destra, trafficante di opere d’arte e piccolo criminale – con i giovani fratelli Angelino e Raffaele Papa, a lui legati, ma non impegnati politicamente, e alcuni giovani della destra bresciana, tra cui Fernando (detto Nando) Ferrari, Arturo Gussago, Andrea Arcai, Marco De Amici. Buzzi e Nando Ferrari sono imputati anche per l’omicidio volontario di Silvio Ferrari. La strage quindi è inizialmente attribuita a un manipolo di piccoli criminali e neofascisti del bresciano, alcuni dei quali mentalmente fragili o instabili, a cominciare dal megalomane Buzzi. Un gruppo attivo esclusivamente a livello locale, senza complici né mandanti.

Il dibattimento del “processo Buzzi” comincia il 30 marzo 1978, in pieno sequestro Moro, e si conclude in primo grado, dopo sei giorni di camera di consiglio, con la sentenza del 2 luglio 1979. L’impianto accusatorio esce fortemente ridimensionato dal vaglio dibattimentale. Gli unici condannati per strage, sulla base della confessione di Angelino Papa, della testimonianza di Ugo Bonati, un ladruncolo di opere d’arte, e degli esiti della perizia sui messaggi del 21 e 27 maggio 1974 pervenuti ai due quotidiani locali, “Giornale di Brescia” e “Bresciaoggi”, sono Ermanno Buzzi e il reo confesso Angelino Papa. Suo fratello Raffaele Papa viene assolto per insufficienza di prove, tutti gli altri con formula piena. Per la morte di Silvio Ferrari viene riconosciuto colpevole – ma di omicidio colposo e non volontario – il solo Nando Ferrari. Con la sentenza, inoltre, Ugo Bonati passa dalla posizione di testimone a quella di soggetto da perseguire per concorso in strage e a tal fine viene disposta la trasmissione degli atti al Procuratore della Repubblica: è l’inizio della seconda istruttoria. Viene subito emesso ordine di cattura nei suoi confronti, ma dalla pronuncia del giudizio è sparito dalla circolazione. Da allora è svanito nel nulla. Nella motivazione della sentenza, i giudici redarguiscono con severità gli inquirenti per l’uso eccessivo della carcerazione preventiva (per indurre le persone coinvolte dall’indagine alla collaborazione).

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La seconda istruttoria, detta “istruttoria Bonati” (procedimento penale nr. 566/79-A), dal nome dell’imputato, già teste-chiave della pubblica accusa nel “processo Buzzi”, è assegnata al pubblico ministero Michele Besson, che in precedenza si era occupato della strage di Piazzale Arnaldo del 16 dicembre 1976 (un morto, Bianca Gritti Daller, e dieci feriti, fra cui i carabinieri Giovanni Lai e Carmine Delli Bovi; imputati due noti pregiudicati bresciani legati ad ambienti dell’eversione nera). L’indagine demolisce in modo definitivo l’impianto accusatorio della prima istruttoria. Si conclude con la sentenza del 17 dicembre 1980, in cui Besson proscioglie il Bonati per non aver commesso il fatto, ma certifica che fu un teste falso, “calunniatore e autocalunniatore, ma necessitato da un ricatto”: voleva difendersi dalla spada di Damocle dell’imputazione (infondata) per concorso in strage. “Siffatto tipo di difesa ha determinato il Bonati a versare in causa elementi che, in sede di verifica storica, logica e processuale sono risultati totalmente falsi, privi di qualsiasi fondamento”, quali, per esempio la presunta bomba radiocomandata, un dispositivo la cui complessità era incompatibile con la totale impreparazione tecnica dei primi imputati per strage.

Il giudizio di secondo grado del “processo Buzzi” inizia nel novembre 1981 e si svolge senza il principale imputato: Ermanno Buzzi è assassinato il 13 aprile dello stesso anno nel supercarcere di Novara da Pierluigi Concutelli, comandante militare del Movimento politico Ordine nuovo, e Mario Tuti, capo del Fronte nazionale rivoluzionario. Con la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Brescia del 2 marzo 1982, dell’impianto accusatorio della prima istruttoria non resta in piedi nulla. Tutti gli imputati sono assolti per non aver commesso il fatto, Buzzi è definito “un cadavere da assolvere”. La Corte, inoltre, stigmatizza con durezza ancora maggiore dei primi giudici gli eccessi in materia di carcerazione preventiva e nella conduzione degli interrogatori, “comportamenti che, pur non ponendosi in contrasto con la espressa normativa processuale, di fatto realizzano una situazione di pericolo obiettivo per l’accertamento della verità; e sono i più insidiosi perché l’imputato non dispone di rimedi per difendersi”. La morte di Silvio Ferrari da omicidio colposo è derubricata a mero “infortunio sul lavoro” (stava trasportando una bomba per un attentato), imputabile a imperizia e negligenza del defunto, nel cui sangue, del resto, era stato riscontrato un tasso alcolemico più che sufficiente a determinare uno stato di ebbrezza.

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Con la sentenza n. 1607 del 30 novembre1983, tuttavia, la Corte di Cassazione, in accoglimento del ricorso del Procuratore Generale di Brescia, annulla la sentenza d’appello per difetto di motivazione (sotto il profilo del travisamento dei fatti e dell’intrinseca contraddittorietà), con rinvio degli atti alla Corte d’Assise d’appello di Venezia, nei confronti di Nando Ferrari, Angelino e Raffaele Papa e Marco De Amici per il reato di strage.

Il giudizio di appello in sede di rinvio presso la Corte di Assise d’Appello di Venezia si conclude con la sentenza del 19 aprile 1985 che, pur assolvendo gli imputati (per insufficienza di prove Angelino Papa, Nando Ferrari e Marco De Amici, con formula piena Raffaele Papa), si contrappone nettamente a quella della Corte d’Assise d’Appello bresciana (e a quella del giudice istruttore Besson che l’aveva preceduta), riabilitando in larga misura l’originaria impostazione accusatoria. Anche contro

la seconda sentenza d’appello vengono proposti ricorsi per Cassazione, ma questa volta la Suprema Corte non ravvisa vizi di alcun genere nella decisione impugnata. La sentenza d’appello veneziana passa, quindi, in giudicato, con la sentenza della Corte di Cassazione del 25 settembre 1987, prima sezione penale, presieduta da Corrado Carnevale.

All’esito della vicenda, i ruoli si invertono: gli accusati diventano accusatori e viceversa. Prende avvio a Milano un procedimento per calunnia a carico del giudice istruttore, Domenico Vino, del pubblico ministero, Francesco Trovato, di Angelino Papa, Ugo Bonati e altri, ma il Tribunale di Milano, con sentenza del 2 luglio 1990, assolve tutti gli imputati con formula piena “perché il fatto non sussiste” (riabilitando gli inquirenti e il loro operato).

Il 23 marzo 1984 l’ufficio istruzione del tribunale di Brescia, su richiesta del pubblico ministero Michele Besson, apre la terza istruttoria a seguito di una serie di rivelazioni di esponenti della destra carceraria (Angelo Izzo, Sergio Calore, Sergio Latini), che avevano imboccato la strada della collaborazione con l’autorità giudiziaria (nella specie, con il dottor Pierluigi Vigna della Procura della Repubblica di Firenze, da tempo impegnato in un’indagine su attentati ferroviari verificatisi lungo la linea Bologna-Firenze negli anni 1974-1983). Inizialmente l’incarico è affidato a un pool di tre magistrati, ma sarà poi in effetti svolto e portato a compimento dal dottor Gianpaolo Zorzi. Imputati per concorso in strage (d’ora in poi ex art. 285 c.p.) sono Cesare Ferri (già indagato nel 1974, all’epoca era stato prosciolto), il suo amico Alessandro Stepanoff, Giancarlo Rognoni (leader del gruppo ordinovista milanese “La Fenice”, con filiale a Brescia denominata “Riscossa”, facente capo a Marcello Mainardi) e Marco Ballan (leader di Avanguardia Nazionale a Milano). L’apporto di nuovi collaboratori di giustizia porta sul banco degli imputati per concorso in strage anche Fabrizio Zani, Marilisa Macchi e Luciano Benardelli. Agli inizi del 1986, l’incombente scadenza del termine di custodia cautelare di Ferri (già prorogato dal Tribunale su richiesta del giudice istruttore) impone di scindere le posizioni processuali. Si giunge così, il 23 marzo 1986, al rinvio a giudizio di Cesare Ferri e di Alessandro Stepanoff per concorso in strage, nonché dello stesso Ferri e di Sergio Latini per concorso (morale) nell’omicidio di Ermanno Buzzi. Le altre posizioni (non ancora compiutamente istruite) vengono stralciate e confluiscono in nuovo fascicolo processuale (n. 181/86-A).

Il dibattimento del cosiddetto “processo Ferri” (n. 218/84) si conclude in primo grado con lasentenza del 23 maggio 1987 che assolve Ferri e Stepanoff per insufficienza di prove. Il giudizio di secondo grado si conclude con la sentenza della Corte d’assise d’appello di Brescia del 10 marzo 1989 che assolve gli imputati con formula piena per non aver commesso il fatto. In data 13 novembre 1989, la prima sezione penale della Corte di Cassazione, ancora presieduta dal giudice Corrado Carnevale, liquida la strage di Brescia (esaminata insieme ad altre sei nella stessa udienza) con una pronuncia di inammissibilità del ricorso del Procuratore Generale di Brescia per manifesta infondatezza, formulando nei confronti della sentenza di assoluzione (impugnata su richiesta del pubblico ministero Michele Besson) una valutazione di perfetta “aderenza alle risultanze processuali e a tutti gli elementi emersi” – peraltro non noti nella loro totalità alla Suprema Corte, visto che ben 52 faldoni di atti non si sono mossi da Brescia. Tutti assolti, dunque. Ma la motivazione della sentenza di primo grado offre una ricostruzione accurata dell’ambiente della destra radicale milanese negli anni Settanta: il milieu in cui si ritiene possano essere stati arruolati gli esecutori materiali della strage bresciana, sebbene non ci siano elementi sufficienti a provare responsabilità individuali.

Nel frattempo, a partire dal 23 marzo 1986, le posizioni stralciate nel fascicolo n. 181/86-A sono oggetto della quarta istruttoria, condotta ancora da Giampaolo Zorzi. Si conclude con la sentenza- ordinanza del 23 maggio 1993, che proscioglie dall’accusa di strage per non aver commesso il fatto (come richiesto dallo stesso pubblico ministero dottor Francesco Piantoni, subentrato al dottor Besson) Fabrizio Zani, Giancarlo Rognoni, Marco Ballan, Marilisa Macchi e Luciano Benardelli. Il giudice istruttore dispone lo stralcio del filone d’indagine relativo alla testimonianza resa da Maurizio Tramonte, di recente identificato con la fonte Tritone del Sid, nel marzo del 1993. La sentenza del giudice Zorzi, però, consegna agli atti la precisa ricostruzione dell’incredibile serie di intralci che sono stati opposti alla sua indagine, anche in sede istituzionale (dal Sismi e da persone non individuate presso l’Ambasciata italiana in Argentina).

Il 24 maggio dello stesso anno prende l’avvio la quinta istruttoria (in realtà ora, secondo il nuovo codice di procedura penale entrato in vigore nel 1989, si chiama “indagine preliminare”), affidata ai pubblici ministeri Francesco Piantoni e Roberto Di Martino. L’indagine acquisisce i rilevanti contributi probatori forniti dai “pentiti” Carlo Digilio, Martino Siciliano (i due sono al centro della nuova istruttoria per la strage di piazza Fontana che si sta svolgendo presso il Tribunale di Milano negli stessi anni) e Maurizio Tramonte (quest’ultimo sbloccatosi dall’iniziale reticenza), e imbocca decisamente la strada che porta a imputare per concorso in strage, insieme a Tramonte, i vertici di Ordine nuovo nel Triveneto, Carlo Maria Maggi e Delfo Zorzi. Per loro, il 3 aprile 2007 la Procura della Repubblica bresciana presenta richiesta di rinvio a giudizio per concorso in strage; l’imputazione colpisce anche Pino Rauti, Francesco Delfino, l’investigatore della prima istruttoria, allora capitano (divenuto generale) dei Carabinieri, e un suo infiltrato, Gianni Maifredi, mentre Gaetano Pecorella, Fausto Maniaci e Martino Siciliano sono imputati per il favoreggiamento di Delfo Zorzi, accusato di aver comprato, con la complicità dei due legali, il silenzio del collaboratore Martino Siciliano (il 14 febbraio 2008 gli atti relativi a questo segmento dell’inchiesta sono trasferiti per incompetenza territoriale da Brescia a Milano, dove l’inchiesta è archiviata). A conclusione dell’udienza preliminare, il decreto del G.U.P. del 15 maggio 2008 dispone il rinvio a giudizio di Zorzi, Maggi, Tramonte, Rauti, Delfino e Maifredi (quest’ultimo muore prima che si arrivi al giudizio).

Il dibattimento del processo agli ordinovisti per la strage si apre il 22 gennaio 2009; è accolta la costituzione di parte civile dei familiari delle vittime, di alcuni feriti, del Comune di Brescia, della Presidenza del Consiglio dei Ministri, dei sindacati confederali Cgil, Cisl, Uil. Si conclude in primo grado con la sentenza del 16 novembre 2010, che manda assolti tutti gli imputati. Stesso esito in secondo grado, con la sentenza della Corte d’assise d’appello di Brescia del 14 aprile 2012. Tuttavia, l’undicesimo grado di giudizio, pronunciato dalla Quinta sezione della Corte di Cassazione, con sentenza del 21 febbraio 2014, annulla le assoluzioni di due imputati – il leader ordinovista Carlo Maria Maggi e il suo sottoposto, nonché informatore del Sid, Maurizio Tramonte – perché la valutazione parcellizzata e disorganica del cumulo di indizi a carico dei due imputati fa ritenere illogico l’esito assolutorio del processo a loro carico. Confermata l’assoluzione di Delfo Zorzi e Francesco Delfino, che escono definitivamente dal processo. Quanto a quest’ultimo, però, entrambe le Corti esprimono giudizi molto duri sul modo in cui condusse le indagini nella prima istruttoria: in primo grado, sono stigmatizzati i “metodi non ortodossi” da lui impiegati nella prima inchiesta, in appello si attribuisce all’investigatore una condotta “estrinsecata in plurimi atti abusivi (e non semplicemente eccedenti quelli ortodossi)”.

Il giudizio di rinvio presso la Corte d’Assise d’Appello di Milano, dopo un breve rinnovamento dell’istruttoria dibattimentale, si conclude con la sentenza del 22 luglio 2015: il leader di Ordine nuovo nel Triveneto Carlo Maria Maggi (il quale dichiarò, poco dopo la strage di piazza Loggia, “Brescia non deve restare un fatto isolato”) e il suo sodale (all’epoca collaboratore dei servizi segreti) Maurizio Tramonte, sono condannati per strage. La sentenza ha un grande valore storico: la condanna di una figura apicale di Ordine Nuovo conferma le pesanti responsabilità dell’organizzazione nella strategia della tensione; confermato anche, attraverso Tramonte, il coinvolgimento ambiguo e depistante dei servizi segreti dell’epoca. Decisamente rivalutata, inoltre, la gravità del suo ruolo: le motivazioni redatte dal giudice Anna Conforti, infatti, precisano come risulti dimostrata la sua presenza in piazza la mattina del 28 maggio.

Le condanne a Maggi e Tramonte sono state confermate in Cassazione con sentenza del 20 giugno 2017.

 

Bibliografia essenziale:

Bianca Bardini (a cura di), I percorsi della giustizia. 34 anni di processi, edizioni Casa della memoria, Brescia 2008 (disponibile online http://www.28maggio74.brescia.it/testo%20percorsi %20giustizia.pdf).

Giancarlo Feliziani, Lo schiocco. Storia della strage di Brescia, Limina, Brescia 2006.

Mimmo Franzinelli, La sottile linea nera. Neofascismo e servizi segreti da piazza Fontana a piazza della Loggia, Rizzoli, Milano 2008.

Benedetta Tobagi, Una stella incoronata di buio. Storia di una strage impunita, Einaudi, Torino 2013.

 

POST SCRIPTUM: Carlo Maria Maggi è deceduto agli arresti domiciliari lo scorso dicembre 2018 a 82 anni; da sempre in precarie condizioni di salute, non è mai stato in carcere.

le foto sono di ANSA