Il nostro Calendario: 28 marzo

MONTEMAGGIO, 1944

  • Angiolo Bartalini
  • Piero Bartalini
  • Emilio Berrettini
  • Enzo Busini
  • Giovanni Cappelletti
  • Virgilio Ciuffi
  • Franco Corsinovi
  • Dino Furiesi
  • Giovanni Galli
  • Aladino Giannini
  • Ezio Grassini
  • Elio Lapini
  • Livio Levanti
  • Livio Livini
  • Fulco Martinucci
  • Emilio Nencini
  • Orvino Orlandini
  • Luigi Vannetti
  • Onelio Volpini

Ricordiamo i nostri Martiri di Montemaggio insieme a Vittorio Meoni, partigiano.

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Illustrazione di Sergio Staino, da Una storia partigiana, 2003

«Cari ragazzi, mi scuso innanzitutto per non essere fisicamente presente come avrei voluto a questo incontro, ma l’anagrafe me lo impedisce. Voglio comunque ringraziare tutti coloro che hanno reso possibile questa iniziativa, ma voglio ringraziare soprattutto voi che avrete la pazienza di ascoltare o leggere la storia della mia vita. Se ho ripercorso il passato l’ho fatto proprio nella speranza che conoscere la mia esperienza potesse aiutare voi giovani a comprendere un passato non troppo remoto e quindi ad orientarvi meglio in questo presente non facile e non molto chiaro. Quello che mi premeva dirvi con i miei ricordi erano principalmente due cose. La prima è già nel titolo: alla macchia sempre non vuole essere l’esaltazione di una ribellione fine a se stessa, ma l’affermazione di un principio che dovrebbe guidarci non solo nei momenti cruciali della vostra vita, ma sempre e comunque: essere autonomi nelle scelte, non seguire passivamente la corrente, vivere con coerenza i propri valori anche se ciò significa pagare un prezzo anche alto. La seconda cosa riguarda la politica. Oggi è diventato uno sport nazionale vituperare la politica e i politici. Non siate acquiescenti a questo andazzo; impariamo dai padri fondatori della democrazia che la politica è l’attività più nobile dell’uomo; se la viviamo come impegno per la realizzazione di ideali in cui crediamo fermamente, la vita sarà ricca e piena come lo è stata la mia. Grazie della vostra attenzione, cari ragazzi, buon lavoro e auguri per il futuro che saprete costruirvi con la buona politica».

Vittorio Meoni, Lettera agli studenti delle Scuole Superiori di Colle Val’d’Elsa, 2017

il nostro Calendario: 27 gennaio 1945

L’Armata Rossa entra ad Auschwitz

“Meditate che questo è stato”

Primo Levi

“Le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso.” 

Hannah Harendt

Guarda QUI il documentario Night Will Fall-Perché non scenda la notte

Basato su materiale interamente inedito, il film di André Singer raccoglie le prime testimonianze visive degli orrori filmati dai cineoperatori all’interno dei campi di concentramento all’indomani della loro liberazione.

Si tratta di immagini girate dalle forze inglesi, russe e americane, che l’allora Ministro delle Comunicazioni britannico e successivamente fondatore della Granada Television, Sydney Bernstein, incaricò di riunire, assieme a numerose interviste ai sopravvissuti allo sterminio, in un documentario che testimoniasse, in modo inequivoco e una volta per tutte, l’indicibile vastità dei crimini perpetrati dal regime nazista ai danni delle comunità ebraiche e di tutta l’umanità. Furono allora chiamati a partecipare grossi nomi dell’Intellighenzia britannica, tra i quali il cineasta Alfred Hitchcock.

il nostro Calendario: 15 gennaio

Cento anni fa veniva uccisa Rosa Luxemburg

«Ora è sparita anche la Rosa rossa.

Dov’è sepolta non si sa.

Siccome disse ai poveri la verità

I ricchi l’hanno spedita nell’aldilà»

Bertolt Brecht, Epitaffio, 1919

BERLINO – Il 15 gennaio del 1919 veniva uccisa Rosa Luxemburg

di Franco Astengo, tratto da Ilpaesedelledonne online

Fra il 15 e il 16 gennaio 1919 i corpi speciali del ministro dell’Interno tedesco, il socialdemocratico Noske, repressero nel sangue la rivolta spartachista di Berlino e assassinarono i due principali esponenti del Partito Comunista Tedesco: Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg.

Beisetzung von Rosa Luxemburg
i funerali di Rosa Luxemburg

A novantanove anni di distanza da quel tragico episodio, che segnò un punto fondamentale nella storia del movimento operaio occidentale, il pensiero di Rosa Luxemburg – al quale dedichiamo questo intervento sicuramente incompleto – rimane uno dei punti di studio fondamentali per comprendere il pensiero “critico” del comunismo dell’epoca delle rivoluzioni e dei grandi partiti di massa.

Si trattò di un vero e proprio “momento di rottura”.

Rosa Luxemburg prese politicamente coscienza all’interno della socialdemocrazia tedesca, ma presto si pose in una posizione critica con quel “revisionismo”, che è stato storicamente proiettato sulla figura di Bernstein. In quel momento  Rosa Luxemburg si collocò in una posizione comune con Kautsky, al riguardo del quale però condivideva solo formalmente la concezione della dialettica tra riforme e rivoluzione.

Dall’analisi dell’esito della rivoluzione russa del 1905 Rosa Luxemburg trasse più ampie conseguenze per la ridefinizione del processo rivoluzionario nell’Europa Occidentale. Ma la svolta maggiormente decisiva nel rapporto fra Rosa Luxemburg e la socialdemocrazia tedesca (cui essa guardava comunque, come del resto lo stesso Lenin, con ammirazione in quanto forza teorico-organizzativa di fondamentale importanza per il proletariato internazionale) fu determinata dalla posizione assunta dell’SPD nel decisivo frangente dello scoppio della prima guerra mondiale, con la pronta conversione del partito – nonostante tutte le dichiarazioni d’impegno contro la guerra fatte sul piano internazionale – a una politica imperialistica di tregua parlamentare. Rosa Luxemburg espresse, con grande amarezza, tutta la propria disillusione allorquando la maggioranza del gruppo parlamentare votò il 4 agosto 1914 la concessione dei crediti di guerra al governo del Kaiser.Rosa_Luxemburg

E’ la guerra che dimostra il fallimento della socialdemocrazia su un punto di principio sino ad allora considerato inviolabile: l’internazionalismo proletario. Forse proprio in quel momento apparve finalmente chiaro a Rosa Luxemburg che quel partito – tanto rapidamente sottrattosi ai propri solenni impegni nei confronti della classe operaia degli altri Paesi e integratosi in quel sistema imperialistico di relazioni interstatali, sino all’ultimo combattuto al prezzo di numerose vittime – non sarà in grado di condurre all’interno della propria società una lotta conseguente per la trasformazione rivoluzionaria. Chi è venuto meno agli impegni internazionali ha insieme perduto l’intima forza per far fronte agli impegni nazionali.

A quel punto l’attività politica di Rosa Luxemburg si concentrò nell’opposizione alla guerra, poiché riteneva che qualunque esito militare si verificasse essa rappresentava comunque la maggiore sconfitta concepibile per il proletariato europeo. Muovendo da queste considerazioni Rosa Luxemburg si adoperò allora per sviluppare alternative organizzative alla socialdemocrazia, venuta meno ai suoi compiti essenziali. Si dovevano dunque riunire e mobilitare tutte le forze in grado di spezzare l’accecamento nazionalistico della pretesa guerra difensiva e trasformarla in una guerra di classe.

Rosa Luxemburg era ben consapevole che, con la fine della guerra, una crisi nazionale globale avrebbe sconvolto le istituzioni politiche e l’egemonia borghese, cosicché, al momento decisivo, sarebbe stato di fondamentale importanza contrapporre alla corrotta socialdemocrazia un’alternativa organizzativa per la presa del potere.

Più d’ogni altro, Rosa Luxemburg è apparsa cosciente della violenta frattura storica rappresentata dalla prima guerra mondiale. Essa considerava la rivoluzione non come una concezione meramente programmatica nell’interesse dell’emancipazione di una singola classe, ma come necessità esistenziale per l’autoconservazione dell’umanità.

Il termine Menschheit (Umanità) sempre ricorrente nei suoi discorsi non rappresentava una pura metafora ma l’essenza di ciò che le appariva storicamente inalienabile e cercò di dimostrarlo anche nel testo del discorso pronunciato al congresso di fondazione del KPD nel dicembre del 1918.Rosa_Lux_Stuttgart_1907

Nella “rivoluzione tedesca” del novembre 1918 le apparve evidente che nulla di decisivo era stato modificato nei rapporti di classe esistenti. I rappresentanti di quella “rivoluzione” erano così intimamente compromessi con il corrotto sistema dominante e con le sopravvissute forze politico-militari che la strada del parlamentarismo, imboccata dall’Assemblea nazionale, doveva necessariamente condurre alla conservazione di quello status quo da cui i vecchi poteri sarebbero usciti alla fine vittoriosi. Ben presto Rosa Luxemburg comprese che il governo Ebert-Scheidemann sarebbe stato in grado di agire solo finché alla classe dominante fosse occorsa una pausa per rigenerarsi completamente.

Risoluta fautrice di una democrazia di base che avesse nei consigli degli operai e dei soldati il fondamento essenziale della sua forma politico-organizzativa Rosa Luxemburg ha combattuto sin dal principio contro ogni forma di mero socialismo di governo. In questo punto cruciale si delinea un altro elemento di frattura e cioè quello relativo a uno specifico rapporto con la rivoluzione d’Ottobre, che può essere definito come di “solidarietà critica”. Rosa Luxemburg non si lasciò condizionare dall’esigenza di dimostrare a ogni costo la propria solidarietà alla rivoluzione d’Ottobre. Prima di tanti altri, essa aveva individuato nella concezione leniniana del partito e in altri punti ancora taluni tratti che preannunciavano le possibili involuzioni della società sovietica e che minacciavano gli elementi fondativi di una democrazia socialista. Da questo elemento prese le mosse la sua ricerca insieme di rottura con la socialdemocrazia e di modello diverso da quello bolscevico. Non è semplice collocare teoricamente questo tipo di ricerca.

Rosa Luxemburg è stata certamente una fautrice della democrazia consiliare: con un’idea del tutto diversa dell’organizzazione da quella, ad esempio, espressa da Anton Pannekoek. La sua concezione della dialettica materialista, completamente determinata da processi storici, non presentò mai aspetti di mentalità naturalistica.

E indicò con grande chiarezza l’alternativa sempre presente in ogni congiuntura storica: socialismo o barbarie.

Proprio questa capacità di presentare, sempre e comunque, di indicare quell’alternativa, rivolta alla vivificazione della dialettica, rese il pensiero di Rosa Luxemburg una forma di eresia particolare nella storia del movimento operaio. Il rapporto con le masse rappresentò un elemento essenziale nella sua teoria politica e proprio questo elemento le impedì di poter accettare il rigido partito di quadri, chiuso in una ferrea disciplina cospirativa, come alternativa al partito socialdemocratico, divenuto intanto una mera unione elettorale.

In Rosa Luxemburg però non si rintraccia un’alternativa astratta fra spontaneità e organizzazione: tutto dipende dalle mediazioni storiche concrete. A dimostrazione di ciò sta il suo concetto specifico di organizzazione. L’organizzazione deve intervenire strutturando e, in un certo senso, anticipando e illustrando, attraverso le esperienze e le forme di lotta dei proletari, i loro momenti rivoluzionari nella prospettiva dell’obiettivo finale. Nella sua concezione dell’organizzazione della lotta di classe,intuì che spontaneità e organizzazione non stanno fra loro in un rapporto esteriore, bensì contengono una loro dialettica immanente. Se si cerca di isolare da una parte la spontaneità e dall’altra l’organizzazione o di stabilire fra esse una piatta identità esse possono trasformarsi, nel loro movimento storico, nell’esatto contrario. Se l’organizzazione proletaria si stacca dalle masse quasi necessariamente dà adito ad azioni spontanee che possono rivolgersi anche contro di essa; se la spontaneità si stacca dalla forza organizzativa della classe operaia, ricade nel feticismo organizzativo di gruppi settari o nel meccanicismo degli atteggiamenti di protesta, che divampano e subito si spengono, di gruppi che non sono disposti e capaci di accollarsi gli sforzi di un lavoro teorico di lunga durata, né gli sforzi di un lavoro pratico-organizzativo.

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Miliziani spartachisti per le strade di Berlino

il nostro Calendario: 2 gennaio

1959: Che Guevara e Camilo Cienfuegos entrano a L’Avana

PRIMO GENNAIO 1959, LA ‘REVOLUCION’ HA VINTO

di ALBERTO FLORES D’ ARCAIS (La Repubblica, 31 dicembre 1988)

LA NOTTE di Capodanno di trent’ anni fa, il dittatore cubano Fulgencio Batista y Zaldivar stava attendendo con ansia le ultime notizie dal fronte militare. Da due anni il suo esercito non raccoglieva che sconfitte nelle campagne e nei monti dell’ isola dei Caraibi e nelle prime ore del pomeriggio di quel 31 dicembre 1958 tutto era diventato più chiaro. Dopo una battaglia durata quasi quattro giorni, la colonna di ribelli guidata da Ernesto Che Guevara aveva infatti conquistato la città di Santa Clara, l’ ultimo bastione nella disperata difesa dell’ esercito governativo ormai in completo sfacelo. Le speranze del dittatore erano legate ad un improbabile miracolo, ma le notizie che gli portarono i suoi collaboratori non potevano essere peggiori. Le due colonne di barbudos guidate da Camilo Cienfuegos e dal Che erano ormai alle porte della capitale, anche l’ Avana sarebbe presto caduta.

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Batista prese una rapida decisione. Convocò il colonnello Ramon Barquin, un ufficiale che aveva complottato contro di lui, che era stato incarcerato e poi rilasciato, e gli lasciò la guida del governo. Era la sua ultima carta da giocare in alternativa a Castro. Quando cominciava ad albeggiare, l’ ex sergente-stenografo dell’ esercito, il mulatto, figlio di un oscuro bracciante di canna da zucchero, che si era trasformato in un feroce dittatore, si fece portare all’ aeroporto dove era in attesa l’ aereo che lo avrebbe portato in salvo nella vicina Miami, in Florida. In quelle stesse ore, a circa novecento chilometri di distanza, nella sede del suo quartier generale situato in una fattoria nei pressi di Santiago, Fidel Castro Ruz stava scrivendo l’ appello con cui avrebbe chiamato i cubani allo sciopero generale. La vittoria del Che a Santa Clara e un colloquio con Camilo Cienfuegos lo avevano convinto che la lunga lotta armata, iniziata con una dozzina di compagni sui monti della Sierra Maestra, era giunta al termine. Mentre in tutto il mondo si festeggiava con brindisi e feste l’ arrivo dell’ anno nuovo, la rivoluzione cubana celebrava il suo trionfo. Uniformi abbandonate Il colonnello Barquin non ebbe il tempo di prendere alcuna decisione. Le forze ribelli, spalleggiate da gente di ogni ceto, borghesi, operai, diseredati, avevano conquistato ormai tutti i punti decisivi nello scacchiere militare dell’ Avana. Tra il primo e il due gennaio l’ intera capitale era nelle mani dei fidelisti, mentre i soldati di Batista tentavano la fuga, dopo aver abbandonato le uniformi, per confondersi con la gente comune e sfuggire così alla vendetta dei vincitori. Fidel attese ancora qualche giorno. Poi tra migliaia di persone in festa, mentre gli improvvisati tribunali rivoluzionari emettevano le prime condanne a morte, l’ otto gennaio fece il suo ingresso trionfale all’ Avana. La rivoluzione aveva vinto.

RIvoluzione-Cubana-1.1.1959

La lunga lotta di Castro e dei suoi contro la dittatura di Batista era iniziata molti anni prima. La data simbolica, quella da cui aveva preso il nome il movimento dei barbudos, è il 25 luglio 1953. Quel giorno, alla testa di circa centocinquanta uomini armati di semplici fucili, Fidel aveva dato l’ assalto alla caserma Moncada, nei pressi di Santiago, la più importante fortezza militare della provincia orientale dell’ isola caraibica. L’ assalto finì in un fallimento. I morti furono una quarantina, i sopravvissuti vennero arrestati tutti nel giro di una settimana. Cinquanta di loro vennero processati, gli altri, meno fortunati, furono torturati a morte. Tra coloro che si salvarono c’ erano Fidel e suo fratello Raul. In tribunale Castro non volle avvocati. Si difese da solo, dichiarandosi colpevole delle accuse mossegli dal regime: Condannatemi pure, la storia mi assolverà. La sua arringa contro la dittatura divenne ben presto uno dei testi sacri della piccola rivoluzione tropicale che si avviava a cambiare la storia dell’ America Latina. Grazie anche alla mediazione e alle pressioni del vescovo di Santiago, Fidel Castro riuscì ad evitare la condanna a morte, ma non 15 anni di reclusione. Ne scontò solo due.

Fidel_Castro_under_arrest_after_the_Moncada_attackPer una di quelle circostanze che a volte possono cambiare il corso della storia, venne liberato in virtù di una delle amnistie generali fatte da Batista per attenuare, di fronte al mondo e soprattutto agli Stati Uniti, le nefandezze della sua dittatura. Castro non resta a Cuba. Esiliato in Messico non rinuncia però alla lotta contro il regime. Ed è proprio in Messico, alla fine del 1955, che incontra l’ uomo che diventerà l’ altro grande protagonista della rivoluzione cubana: E’ un medico argentino, Ernesto Guevara. Da quel giorno tra i due il sodalizio politico e l’ amicizia diventerà una sola cosa. Fino all’ entrata trionfale all’ Avana nulla di grave turberà i loro rapporti. Sarà solo più tardi, di fronte alle difficili scelte rivoluzionarie, che qualcosa si incrinerà. Guevara, ormai conosciuto in tutto il mondo come il Che, lascerà l’ isola per andare a cullare il suo sogno fochista in Bolivia, dove nell’ ottobre del 1967 troverà la morte.

Cinfuegos Luis_Korda_02Alla fine del 1956 la vita in Messico diventa troppo rischiosa per i rivoluzionari cubani. Castro, suo fratello Raul, Guevara, ed altri ottanta ribelli, salpano dalle coste messicane a bordo del panfilo Granma. Dopo giorni di difficile navigazione sbarcano finalmente sul suolo cubano. Li attende una brutta sorpresa che si trasformerà in un’ altra bruciante sconfitta. Attaccati da un reggimento governativo vengono decimati. Riescono a salvarsi solo in dodici che fuggono sui monti della Sierra Maestra. E’ lì che Fidel inizia quella che sembra una follia: La lotta armata contro il regime di Batista. Castro trova un terreno fertile tra i contadini, recluta uomini, comincia con piccoli colpi di mano che diventano via via sempre più audaci. Ruba armi, attacca piccole pattuglie, poi caserme, conquista mitragliatrici e armi pesanti. L’ elemento sorpresa Le fila dei barbudos chiamati così perché Castro promette che non si taglierà la barba fino alla vittoria (promessa non mantenuta) si ingrossano e inizia una lunga guerra di logoramento. Dalle imboscate si passa a vere e proprie battaglie. Castro punta sempre sull’ elemento sorpresa, i fatti danno ragione alla sua tattica. I barbudos sono attivissimi nella propaganda non meno che nella lotta armata. Batista tenta di replicare con le stesse armi ma commette un errore imperdonabile. Annuncia trionfalmente che Castro è stato ucciso e che l’ esercito ribelle è stato distrutto. A smentirlo ci pensa uno dei grandi reporter del New York Times, Herbert Matthews, che riesce a raggiungere la Sierra e ad intervistare Castro. Gli articoli di Matthews, che non nasconde la sua simpatia per il leader ribelle, in quegli anni ancora lontano dall’ ideologia comunista, fanno diventare Fidel popolare negli Stati Uniti e la lotta dei barbudos conosciuta in tutto il mondo. Fanno soprattutto sapere ai cubani che Castro è vivo e che il suo esercito è più forte di prima. Da quel momento, per due anni, i ribelli conquistano palmo dopo palmo il territorio di tutta l’ isola. Fidel mette a segno due colpi propagandistici che gli daranno l’ onore delle prime pagine sui giornali di tutto il mondo. Il rapimento di Manuel Fangio, il popolare pilota campione del mondo di formula 1, e il sequestro di 47 militari americani in libera uscita dalla base Usa di Guantanamo. Sia Fangio che i soldati statunitensi verranno liberati. Alla fine del 1958 la dittatura di Batista è sempre più debole. Tutte le campagne sono ormai territorio libero nelle mani di Fidel e dei suoi. Il dittatore tenta la carta delle elezioni. I votanti sono pochi, i brogli molti, nessuno crede veramente alla conversione democratica dell’ ex sergente. Gli ultimi mesi vedono nuovi successi dei ribelli e la repressione sempre più feroce di dissenso da parte della polizia di Batista. Ma ormai il destino del dittatore è segnato. Perché si compia basterà attendere la notte di quel Capodanno di trent’ anni fa.

 

QUESTE LE DATE STORICHE
26 Luglio 1953 Assalto alla caserma Moncada. Fidel Castro e i suoi vengono arrestati.
1955 Castro viene liberato grazie a un’ amnistia generale. Si rifugia in Messico dove conosce Ernesto Guevara.
Dicembre 1956 Partito insieme ad altri 28 uomini dal Messico a bordo del Granma, Castro sbarca a Cuba e si rifugia nella Sierra Maestra.
Agosto 1958 Inizia l’ attacco finale delle tre colonne di barbudos guidate da Fidel, Guevara e Cienfuegos.
Dicembre 1958 I ribelli sono alle porte dell’ Avana. Tra il 27 e il 31 dicembre Guevara conquista la città di Santa Clara, ultima difesa prima della capitale.
1-2 Gennaio 1959 Batista fugge da Cuba. Le colonne di Cienfuegos e Guevara entrano all’ Avana occupando i punti chiave della città.
15 Aprile 1961 Ribelli anticastristi appoggiati dagli Stati Uniti sbarcano a Baia dei Porci ma vengono sconfitti dopo una violenta battaglia.
22 Ottobre 1962 Il presidente americano John Fitzgerald Kennedy ordina il blocco navale intorno a Cuba.
7 Ottobre 1967 In Bolivia viene ucciso Ernesto Che Guevara 1970 Fallisce la grande zafra, la raccolta di dieci milioni di tonnellate di canna da zucchero.
1975 Con l’ operazione Carlotta ha inizio l’ intervento militare cubano in Angola. Dicembre 1975 Primo congresso del partito comunista.
1980 Dal porto di Mariel 127 mila cubani abbandonano l’ isola per raggiungere la Florida.
1983 Gli Stati Uniti invadono Grenada.

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Le rivoluzioni hanno avuto il suo volto

(di Osvaldo Soriano)

Le sue parole d’ordine si andarono a stampare sui muri di Parigi, Londra, di Bologna, ma soprattutto penetrarono le coscienze di quei giovani che erano convinti di poter cambiare un mondo ingiusto e noioso, logorato dalla crescita economica del dopoguerra.
La rivoluzione aveva il volto del Che, leggeva Sartre e Fanón, ascoltava i Beatles. In America latina preferiva i racconti di Julio Cortázar e Gabriel Garcia Márquez e la musica di Alfredo Zitarrosa e Daniel Viglietti, di Chico Buarque e Silvio Rodríguez. Il soffocamento della rivolta in Francia non impedì che il suo spirito libertario arrivasse fino ai colonnelli portoghesi e ai sergenti africani.

In America erano in armi i «montoneros» argentini, i «tupamaros» uruguayani, i trotzkisti peruviani, i marxisti colombiani e salvadoregni, i sandinisti nicaraguensi, e in ogni parte sorgeva un «foco» di nuova insurrezione. La Dottrina della sicurezza nazionale, insegnata dai nordamericani nella Scuola di guerra del canale di Panama, preparava i militari di tutto il continente alla repressione.

In Bolivia, dove era caduto il Che, il generale Juan José Torres instaurò un governo socializzante che ebbe i suoi fugaci soviet di soldati e minatori prima di cadere abbattuto dalla borghesia e dai contadini. In Brasile, la dittatura militare avviata nel ’64 smembrò la guerriglia urbana e impose un ordine di crescita economica ferrea e rapida. In Perù ci fu un serio tentativo nazionalista guidato dal generale Velazco Alvarado, che poi fu tradito e deposto. In Cile, dove c’era una tradizione democratica, il socialista Salvator Allende giunse al governo con l’appoggio di comunisti e cattolici di sinistra. In Uruguay crebbe la guerriglia «tupamara» e si formò il «Fronte amplio», una coalizione di sinistra legale che arrivò a minacciare l’egemonia dei partiti tradizionali. In Argentina, dove la confusione era maggiore, il generale Juan Perón tornò al potere nel 73 dopo diciotto anni di esilio, grazie all’offensiva guerrigliera dei «montoneros» nazionalisti e dei marxisti dell’«Ejercito revolucionario del pueblo». La stabilità delle presunte democrazie vacillò in Venezuela e Colombia e l’Ecuador divenne ingovernabile. A Panama prese il potere un colonnello nazionalista e avventuriero che affascinò Graham Green: Omar Torrijos.
    Cuba 1959
Fu uno dei decenni più turbolenti del continente. Bruscamente apparirono dal fondo dei tempi i fantasmi dei padri fondatori: Bolívar, San Martí, Artigas, José Marti, questa volta inalberati dai giovani che li avevano patiti nei libri di scuola del sistema educativo dominante. Gli eroi dell’indipendenza avevano altre voci, ora: erano divenuti più umani e parlavano dei poveri e degli indios; erano loro i precursori della «Gran Patria Americana».
D’improvviso i ragazzi di questa parte del mondo si sentivano orgogliosi di essere di qui e erano pronti a morire per essere liberi. Tutto il mondo progressista li guardava con ammirazione e perfino con invidia, e se perdevano qualche battaglia le porte dell’Europa erano aperte per accoglierli e per starli a sentire.
A metà degli anni Settanta si cominciarono a avvertire gli echi in Germania federale, Italia, Spagna e un’altra volta in Francia. Questi echi suonavano come scoppi. Cadde il regime di Salazar e la borghesia portoghese tremò con la «Rivoluzione dei garofani». L’Europa, così sicura di sé, si lasciò tentare fino a che arrivò la gran depressione economica del 73.
Allora si ebbe il crollo delle illusioni, la fine di un’epoca in cui tutti i sogni erano stati possibili. Il Che andava a morire di nuovo e quella morte sarebbe stata più duratura. (…) Lui alzò le bandiere dell’utopia e nei suoi testi, come nel suo diario, appare una visione forse ingenua del mondo.
Però lui ci credeva, e fece sì che anche molti altri ci credessero. C’era qualcosa di religioso in questo, qualcosa di molto discutibile, ma tutte le grandi rivoluzioni hanno avuto i loro uomini pragmatici e quelli disposti a dare la vita per i loro principi. Probabilmente è vero che l’esempio del Che ha trascinato molti giovani a una morte inevitabile, ma altri, come i sandinisti, sono arrivati alla rivolta quando ormai nessuno più credeva nella lotta armata.
È per questo che nelle società più disperate il Che conserverà sempre tutto il suo valore. A tanti anni dalla sua morte in molti lo hanno abbandonato altri seguono i suoi passi, là dove libertà è una parola senza significato. Molta gente racconta che, in fondo, il Che era di un grande candore.
Quest’uomo credeva ciecamente nell’onestà, nella giustizia e nella capacità dei popoli latinoamericani di capire qual è il loro destino.
Col tempo questo sentimento quasi cristiano dell’uguaglianza può far sorridere. Pare di favola quel personaggio che divideva una caramella fra quattro compagni perché nessuno ne avesse più dell’altro. E tuttavia non era un angelo: quelli che erano presenti ai processi successivi alla rivoluzione cubana, nel ’59, lo ricordano seduto a un tavolo mentre giudicava torturatori e spie che finivano al muro con la sua parola.
A Cuba il Che era uno dei tre comandanti di maggior prestigio insieme con Castro e Camilo Cienfuegos. Fino a che nel ’65, bruscamente, uscì dalla scena politica. Molti credettero che si trattasse di un regolamento di conti fra i capi della rivoluzione. Quando il suo nome cominciò a passare di bocca in bocca in Bolivia, ci fu chi pensò a un emulo demente. Solo nell’ultimo anno della sua vita si ebbero testimonianze indubitabili che il Che era a capo di una nuova rivoluzione.
    Bolivia  1967
Si sono scritte migliaia di pagine sugli errori commessi dai guerriglieri in Bolivia e nel diario dello stesso Guevara ci sono prove dell’infinita solitudine in cui lo lasciarono i contadini dell’altipiano, una delle regioni più desolate del continente.
Quando le truppe regolari lo presero, quasi per caso, morte di paura, è possibile che il Che, indebolito dalla fame e dall’asma, abbia intuito che la sua epopea era giunta alla fine.
Non immaginava quel che sarebbe cominciato con la sua morte, ma è certo che oggi non rinnegherebbe nulla della sua vita rivoluzionaria.
Non aveva ancora quarant’anni e aveva già scosso il continente come nessuno dai tempi dell’indipendenza. Forse per questo lo si assimila oggi ai grandi eroi americani e perfino i suoi peggiori nemici hanno per lui un diffidente rispetto. Molti teorici degli anni ’60 hanno scritto e dibattuto sulle tattiche e le strategie per sollevare le masse dei popoli oppressi. Alcuni, come Règis Debray, che accompagnò Guevara in Bolivia, hanno abiurato poi i loro anni ribelli.
Qualunque sia il giudizio che meriti oggi l’uomo assassinato a bruciapelo l’8 ottobre 1967, nessuno può negare che, a torto o a ragione, ciò che più colpisce di lui è la fedeltà a una causa che rivendicava la giustizia e la libertà.
Il Manifesto – 8 ottobre 2017

il nostro Calendario: 10 Dicembre

1948: la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo

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«Dove iniziano i diritti umani universali? In piccoli posti vicino casa, così vicini e così piccoli che essi non possono essere visti su nessuna mappa del mondo. Ma essi sono il mondo di ogni singola persona; il quartiere dove si vive, la scuola frequentata, la fabbrica, fattoria o ufficio dove si lavora. Questi sono i posti in cui ogni uomo, donna o bambino cercano uguale giustizia, uguali opportunità, eguale dignità senza discriminazioni. Se questi diritti non hanno significato lì, hanno poco significato da altre parti. In assenza di interventi organizzati di cittadini per sostenere chi è vicino alla loro casa, guarderemo invano al progresso nel mondo più vasto. Quindi noi crediamo che il destino dei diritti umani è nelle mani di tutti i cittadini in tutte le nostre comunità».
(Eleanor Roosevelt, 27 marzo 1958, In Your Hands).

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Il 10 dicembre 1948, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, riunita a Parigi, approvò e proclamò la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, con la risoluzione 217A.

Degli allora 58 membri 48 hanno votato a favore, nessuno contro, otto si sono astenuti e due non hanno votato. Questa documento doveva essere applicato in tutti gli stati membri, e alcuni esperti di diritto hanno sostenuto che questa dichiarazione sia divenuta vincolante come parte del diritto internazionale consuetudinario venendo continuamente citata da oltre 50 anni in tutti i paesi.

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La dichiarazione è frutto di una elaborazione secolare, che parte dai primi principi etici classico-europei stabiliti dalla Bill of Rights e dalla dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America, ma soprattutto la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino stesa nel 1789 durante la Rivoluzione francese, i cui elementi di fondo (i diritti civili e politici dell’individuo) sono confluiti in larga misura in questa carta.

È la base di molte delle conquiste civili del XX secolo, in proposito molto rilevanti nel percorso che ha portato alla sua realizzazione, sono i Quattordici punti redatta del presidente Woodrow Wilson nel 1918 e i pilastri delle Quattro Libertà enunciati da Franklin Delano Roosevelt nella Carta Atlantica del 1941. Dopo la fine della seconda guerra mondiale ad essa è poi seguita la Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali e la Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici, elaborati dalla Commissione per i Diritti Umani ed entrambi adottati all’unanimità dall’ONU il 16 dicembre 1966.

Ha costituito l’orizzonte ideale della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, confluita poi nel 2004 nella Costituzione europea. Il testo della Costituzione Europea non è mai entrato in vigore per via della sua mancata ratifica da parte di alcuni Stati membri (Francia e Paesi Bassi a seguito della maggioranza dei no al relativo referendum), ma la Dichiarazione in ambito europeo costituisce comunque una fonte di ispirazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea proclamata per la prima volta a Nizza il 7 dicembre 2000, ed avente oggi anche pieno valore legale vincolante per i Paesi UE dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona il 1º dicembre 2009 e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea quale parte integrante della Costituzione europea.

Dichiarazioneleggi qui il testo integrale della Dichiarazione

il nostro Calendario: 2 Dicembre

1968: i fatti di Avola

I contadini uccisi ad Avola

Volevano solo trecento lire in più

di Mauro De Mauro (pubblicato su L’Espresso, 8 dicembre 1968)

Avola – Al ventesimo chilometro della statale 115, quasi alle porte di Avola, non si passa più. Bisogna scendere dalla macchina e proseguire a piedi verso il grosso borgo che si intravede poco al di là della curva, quasi di fronte al mare. È difficile mantenersi in equilibrio sull’asfalto di pietre e di bossoli. È uno spettacolo desolante; si ha la precisa sensazione che qui, per diverse ore, si è svolta un’accanita battaglia. In fondo al rettilineo la strada è parzialmente ostruita dalle carcasse ancora fumanti di due automezzi della polizia dati alle fiamme. Sull’asfalto, qua e là, delle chiazze di sangue rappreso. Anche un autotreno, messo di traverso dagli operai in sciopero per bloccare la strada, è sforacchiato dai colpi e annerito dal fuoco. Proprio come una R4 e una decina di motociclette dei braccianti sui cui serbatoi i poliziotti hanno sparato per impedirgli di andarsene.
Sono le dieci di sera di lunedì 2 dicembre. Giornalisti e fotografi, accorsi da tutta l’Italia, stanno raggiungendo un paese il cui nome resterà a lungo nella storia delle lotte sindacali italiane.
È una prospera cittadina, a pochi chilometri da Siracusa, al centro di una ricchissima zona di orti e di agrumeti. Fino a ieri era noto come il “posto delle mandorle”, le buone, dolcissime, tenere mandorle di Avola. Da oggi non si potrà più nominare senza venir colti da un senso di sgomento e di profonda amarezza.

Due chili di bossoli
Giuseppe Scibilia, di quarantasette anni, era nato qui. Angelo Sigona, di ventinove, era nato a pochi chilometri di distanza, a Cassibile, il paese dove, nel settembre del ’43, il generale Castellano firmò l’armistizio per l’Italia sotto la tenda del generale Eisenhower. Ora sono tutti e due distesi nella sala mortuaria dell’ospedale civile di Siracusa. Gli hanno sparato poliziotti di ogni grado, appartenenti al battaglione mobile di Siracusa, con armi diverse: dai mitra corti in dotazione agli agenti, alle pistole calibro 9, 7.65 e 6.35 in dotazione a sottufficiali, ufficiali e funzionari di Pubblica Sicurezza. Una parte delle centinaia di bossoli raccolti poco fa sul campo di battaglia sono in possesso della Federbraccianti. Qualcuno, il deputato Antonino Piscitello, che si trovava sul posto al momento dell’eccidio, li ha anche pesati: erano più di due chili. Il piombo delle forze dell’ordine ha ridotto in fin di vita altri quattro braccianti. Uno di essi, Giorgio Garofalo, nato ad Avola trentasette anni fa, ha tredici pallottole nel ventre.
Fa freddo. La statale 115 è in parte gelata. Ma dà un senso di gelo maggiore il doversi occupare ancora, dopo venticinque anni di lotte sindacali, di braccianti caduti sotto le raffiche della polizia. Stavano scioperando per difendere diritti e interessi elementari. Il presidente della Confagricoltura, conte Alfonso Gaetani, era in viaggio alla volta di Siracusa per contendere a questi uomini il miglioramento che reclamavano, ma la battaglia del chilometro 20 ha interrotto il suo viaggio.

Tutto cominciò dieci giorni fa, quando i braccianti agricoli aderenti alle tre maggiori organizzazioni sindacali (Cgil, Cisl e Uil) decisero d’intraprendere una grande azione unitaria. Si trattava di ottenere un aumento del 10 per cento sulle paghe, ma soprattutto il riconoscimento di un elementare diritto fino ad oggi negato: la parità di trattamento salariale tra addetti a uno stesso lavoro in due zone diverse di una stessa provincia. Questo infatti è un paese in cui si può ancora morire battendosi non per equiparare i salari di Avola a quelli di Milano, ma per ottenere che il bracciante di Avola abbia un salario non inferiore a quello del bracciante di Lentini. Perché la provincia di Siracusa è divisa in due zone: la zona A, che comprende i braccianti di Lentini, Carlentini e Francoforte, in cui la paga giornaliera è di 3480 lire; e la zona B, con Siracusa e i restanti comuni della provincia, in cui la paga è di 3110 lire.

Tutto questo, nonostante che la provincia di Siracusa sia una tra le più floride della Sicilia. Florida cioè per i proprietari terrieri, che da ogni ettaro di agrumeto riescono a trarre annualmente un reddito netto che varia tra le 600 e le 800 mila lire. In realtà, il reddito medio pro capite in provincia di Siracusa è tra i più bassi d’Italia. E se la media statistica crolla a questi valori da mondo sottosviluppato, è per le condizioni di vita del bracciantato locale. Per questo già due anni fa ci furono rivendicazioni e proteste, e a Lentini una serie di gravissimi incidenti con poliziotti e carabinieri. Anche allora si trattava di un’azione sindacale originata dal rinnovo del contratto di lavoro. Ma allora c’erano stati dei feriti. Oggi si piangono i morti.

Di fronte al rifiuto degli agrari di prendere contatto con i rappresentanti delle organizzazioni sindacali, il 25 novembre scorso, lunedì, 32.000 lavoratori agricoli incrociano le braccia abbandonando i “giardini” dove in questi giorni maturano gli aranci. All’azione partecipano, consapevoli dell’importanza del problema, tutti i sindaci dei paesi interessati, socialisti, democristiani, comunisti. Ma i proprietari non cedono, rifiutano l’incontro e la contrattazione, adottano ogni sorta d’espediente per prendere tempo. Così, dalle piazze dei paesi i braccianti in sciopero dilagano lungo le strade provinciali, innalzano blocchi di pietre nella speranza che le interruzioni del traffico attirino l’attenzione del governo. E infatti qualcuno si accorge delle pietre, dei blocchi delle strade, del traffico difficile: ma non del problema per il quale ci si batte. Il prefetto di Siracusa convoca il sindaco socialista di Avola e lo invita a intervenire perché i blocchi vengano rimossi e il traffico possa riprendere immediatamente. «Lei è il primo cittadino di questo paese», dice in sostanza il prefetto, «e il suo dovere è dunque quello di indossare la fascia tricolore e di raggiungere gli scioperanti per convincerli a sciogliere la manifestazione». Ma il sindaco Danaro non è affatto d’accordo. «Indosserò la fascia tricolore», risponde, «e andrò a unirmi agli scioperanti per presentarmi alla polizia e intimarle di abbandonare il paese».

Così avviene, infatti. E così, nel primo pomeriggio di lunedì, mentre un centinaio di braccianti agricoli sono intorno a uno sbarramento di pietre eretto al 20° chilometro della statale 115, poco prima del bivio per il Lido di Avola, nove camionette cariche di agenti, per complessivi novanta uomini, arrivano da Siracusa e si arrestano di fronte al blocco intimandone lo smantellamento immediato. Sono novanta uomini col mitra in mano, il tascapane pieno di bombe lacrimogene, l’elmetto d’acciaio col sottogola abbassato. È quanto basta perché i braccianti esasperati reagiscano con un primo lancio di pietre. I poliziotti sbandano. L’ufficiale che li comanda grida un ordine secco, e una prima scarica di bombe piove sul gruppo degli scioperanti sprigionando una densa nuvola di fumo bianco. Ma il gas, invece di intossicare gli operai, investe, trasportato dal vento, gli stessi poliziotti i quali vengono contemporaneamente respinti da una seconda bordata di pietre. I piani di battaglia elaborati al tavolino dai comandanti delle forze dell’ordine sono travolti dagli avvenimenti. Da uno scontro frontale la battaglia si frantuma in una serie di piccoli episodi di violenza, uomo contro uomo, e dalla strada si trasferisce nei campi circostanti.
Altri braccianti accorrono dal paese e dalle case coloniche vicine. Disseminati e privi di collegamento tra loro, i poliziotti rischiano di venire sopraffatti. Perdono la testa. Qualcuno comincia a sparare. In pochi secondi le grida che fino a quel momento avevano dominato il campo di battaglia vengono coperte da una serie di scariche frastornanti, ininterrotte, un inferno che soffoca il gemito dei primi feriti. Le file dei braccianti indietreggiano, gli uomini si danno alla fuga, la polizia rimane padrona del campo. Ma è una vittoria talmente amara e tragica, che le forze dell’ordine non se la sentono di presidiare il campo di battaglia. Dopo aver operato una diecina di fermi e aver smantellato il blocco stradale, gli agenti abbandonano la zona e lo stesso centro di Avola, consapevoli che la loro presenza potrebbe scatenare reazioni.

Adesso, alle undici di sera, Avola sembra un paese di fantasmi. Dalle due del pomeriggio la vita si è fermata, i negozi hanno abbassato le saracinesche in segno di protesta e di lutto, le due sale cinematografiche hanno chiuso. Una folla immobile e muta indugia sulla piazza principale dove poco fa il sindacalista Agosta ha tenuto un comizio a nome della Federazione dei braccianti. In giro non si vede neppure una divisa. È come se l’intero paese stesse aspettando di riprender contatto con una realtà che tuttora appare incredibile. Ma il cordoglio, come del resto la destituzione del questore di Siracusa Vincenzo Politi o le deplorazioni ufficiali, evidentemente non bastano.

Telegramma ai socialisti
Perchè in italia si spara ancora sui braccianti, sugli operai, sui contadini? Il segretario regionale del Psi, Lauricella, la Uil siciliana, i socialisti della Cgil siciliana hanno telegrafato ai loro compagni impegnati nelle trattative di governo per esigere, come condizione irrinunciabile della partecipazione socialista a una nuova coalizione di centro-sinistra, l’immediato disarmo della polizia. «In questa amara circostanza», ha detto Vito Scalia, segretario confederale della Cisl (e originario di questa zona), «sono costretto a ricordare di aver chiesto già da molto tempo, e precisamente all’indomani dei tristi fatti di Ceccano, la creazione di speciali reparti di polizia del lavoro privi di armi e dotati soltanto di normali mezzi di sfollamento. Come tutta conseguenza, venni additato a una specie di linciaggio morale da parte del paese; ma se quella proposta fosse stata accolta, oggi non si piangerebbe sulle spoglie di morti innocenti e sulle ferite di tanti lavoratori».

il nostro Calendario: 20 Agosto

praga

Cronologia sintetica della Primavera di Praga

Il 1968 si apre a Praga con la ripresa del plenum del Comitato centrale (Cc) del Partito comunista cecoslovacco (Pcc) del 3 gennaio, lo scontro è tra stalinisti (Novotný), legati all’Urss di Leonid Brežnev, e il gruppo dei riformisti (Dubček, Oldrik, Cernik, Smrkovsky e Mlynar), che, fra l’altro, punta ad una decisa riforma dell’economia ed alla progressiva separazione del ruolo e del potere del partito dagli organismi istituzionali e dal governo.

5 gennaio: di fronte alla situazione di grave crisi economica e al malcontento popolare, Novotný rassegna le dimissioni dalla carica di primo segretario del PCC; al suo posto viene eletto Alexander Dubček.

22 febbraio: primi contrasti in occasione dei festeggiamenti per il XX anniversario della presa del potere del partito comunista in Cecoslovacchia.

21 marzo: Novotný è costretto a lasciare anche la presidenza della Repubblica, viene sostituito da Ludvik Svoboda.

5 Aprile: dopo una discussione durata cinque giorni, il Comitato centrale del PC cecoslovacco approva il “Programma d’azione” elaborato dal gruppo dei riformisti.

5-7 maggio: visita a Praga del segretario del PCI Luigi Longo che esprime la solidarietà del partito con la lotta per lo sviluppo della democrazia in Cecoslovacchia.

Fine maggio: il Ministero della difesa annuncia per il giugno manovre militari del Patto di Varsavia sul territorio cecoslovacco. Viene annunciata dal Comitato centrale del PCC la convocazione in settembre del XIV congresso straordinario del Partito.

27 giugno: pubblicazione del “Manifesto delle 2000 parole” redatto dallo scrittore Ludvik Vasulik e poi sottoscritto da migliaia di esponenti del mondo della cultura, dell’arte e dello sport. Il documento sollecita un’accelerazione del processo di democratizzazione in atto suscitando sia all’interno del PC cecoslovacco sia da parte sovietica.

7 luglio: la Pravda pubblica un articolo teorico che mette in guardia contro gli esperimenti tentati a Belgrado, Bucarest e Praga. Il 15 ed il 24 luglio successivi, analoghi articoli sulla stampa della Repubblica Democratica Tedesca denunciano apertamente il “rischio imperialista” e la “contro- rivoluzione rampante” in atto in Cecoslovacchia.

19 agosto: Dubček riceve una dura lettera da parte di Brežnev, segretario del Pcus, nella quale si esprime “insoddisfazione” per gli sviluppi della situazione in Cecoslovacchia.

20 agosto: alle ore 23 truppe di Unione Sovietica, Polonia, Repubblica Democratica Tedesca, Ungheria e Bulgaria invadono la Cecoslovacchia, impedendo ai riformisti qualsiasi tentativo di reazione. I comunisti cecoslovacchi, guidati da Alexander Dubček, sono costretti dal precipitare degli eventi a riunire in una fabbrica alla periferia di Praga il XIV congresso del partito. A conclusione dei lavori viene approvato integralmente il Programma d’azione pubblicato in aprile. La situazione determinatasi nel Paese impedisce ulteriori sviluppi di tale deliberazione.

24-27 agosto: Dubček e gli altri esponenti del governo cecoslovacco, condotti a Mosca, devono accettare la presenza delle truppe straniere e rinunciare all’attuazione del programma di riforme.

16 gennaio 1969: per protestare contro il processo di normalizzazione avviato con l’invasione sovietica, lo studente Jan Palach si cosparge di benzina e si dà fuoco in piazza San Venceslao a Praga; il suo esempio viene seguito da una ventina di giovani in tutto il Paese.

17 aprile 1969: Dubček viene destituito e sostituito con Gustav Husák.

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Il primo ottobre 1970 entrò in vigore il decreto del ministero degli interni che ordinava “misure d’urgenza nei luoghi culturali per garantire la purezza e la trasparenza del lavoro ideologico” provocando un’ondata massiccia di licenziamenti, che in quattro anni toccarono più del 70% del personale artistico e scientifico, soprattutto nelle case della cultura (85%) seguite dalle case editrici (82%). [. . . ]

Per quanto riguarda la produzione letteraria propriamente detta, 1089 libri furono mandati al macero solo nell’ambito ceco e slovacco. A questi si aggiunsero 398 titoli ritirati dalla circolazione, e 421 autori si ritrovarono all’indice, di cui 153 (fra i quali ventuno classici) per l’insieme della loro opera. Una trentina di scrittori stranieri per un totale di 130 titoli vennero a completare questa lista (a mo’ di paragone, l’elenco delle opere “indesiderabili” pubblicata all’attenzione delle biblioteche nel 1960 comprendeva 6590 titoli).

Più sottili furono gli interventi praticati nei testi degli autori destinati a essere “rivisti” con la scusa di “anticipare le influenze nocive e le idee sbagliate di alcune opere”. Fra i portatori di idee sbagliate, Shakespeare, Lope de Vega, Calderon, Molière, Corneille, Goethe, Schiller, Dostoevskij, Goncˇarov, Cˇechov, Whitman, Ibsen, Strindberg, Baudelaire, Flaubert, Verlaine, Apollinaire, Shaw. . .

In totale circa diecimila interventi diretti della censura ebbero luogo in otto anni, tra rappresentazioni teatrali o musicali vietate, mostre mai realizzate (fra cui quelle dedica- te all’arte gotica nella Boemia meridionale e all’arte barocca a Plzenˇ ), manifestazioni culturali abortite, libri vietati o ritirati dalle biblioteche, testi “attualizzati”.

La censura non risparmierà neanche l’istituto della protezione dei monumenti storici, accusato di fare propaganda religiosa. Durante questo stesso periodo l’istituto si vedrà vietare per 129 volte il restauro di edifici appartenenti all’architettura sacra. Inoltre numerose domande di ricerche archeologiche, etnografiche o storiche verranno rifiutate, e 65 località dichiarate “siti classificati” saranno definitivamente distrutte nei primi anni della normalizzazione. (Patrik Ouˇredník,  Cecoslovacchia: le condizioni della cultura.)

Leggi qui un estratto di Jiri Pelikan tratto da“Io, esule indigesto. Il Pci e la lezione del ’68 di Praga”

il nostro Calendario: 18 luglio

1918-2018: Centenario della nascita di Madiba

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Mandela, Nelson Rolihlahla

Uomo politico sudafricano (Qunu, Umtata, 1918 – Johannesburg 2013). Partecipò nel 1944 alla fondazione della lega giovanile dell’African national congress (ANC), di cui divenne nel 1950 presidente. Tra i promotori degli scioperi contro le leggi sulla segregazione dei neri, subì numerosi arresti; convintosi in seguito della necessità di passare alla lotta armata, fondò (1961) un’organizzazione clandestina. Fu condannato all’ergastolo nel 1964 e divenne il simbolo della lotta al segregazionismo in tutto il mondo. Liberato nel 1990, svolse un ruolo di primo piano nel processo di democratizzazione del paese. Premio Nobel per la pace insieme a F.W. de Klerk (1993), è stato poi presidente della Repubblica (1994-99). Continua a leggere “il nostro Calendario: 18 luglio”

il nostro Calendario: 14 luglio

Attentato-a-Togliatti
Il 1° gennaio del 1948 in Italia entrò in vigore la Costituzione repubblicana. Quello stesso giorno Pietro Nenni, leader dell’unico partito socialista europeo di una certa grandezza legato in un Fronte popolare a quello comunista, scrisse sull’«Avanti!» che era giunto il momento di «adeguare il 1948 al 1848». La Democrazia cristiana raccolse la sfida implicita nel richiamo nenniano agli eventi rivoluzionari di un secolo prima e diede alle stampe un manifesto dove comparivano l’aquila asburgica accanto a «1848» e la falce e martello vicina a «1948». Lo slogan del cartellone Dc era: «Allora contro lo straniero/ oggi contro la tirannia».
La sinistra rispose con un poster da cui si affacciava Giuseppe Garibaldi che si rivolgeva al leader trentino con queste parole: «Bada De Gasperi, che nessun austriaco me l’ha mai fatta». Iniziava la sfida: i socialcomunisti, nel nome appunto di Garibaldi, il 18 aprile del 1948 cercavano di travolgere la Dc alle prime elezioni politiche del secondo dopoguerra. E di punire in tal modo Alcide De Gasperi, che un anno prima li aveva cacciati dal governo.
Il risultato di quella consultazione elettorale — precisano Mario Avagliano e Marco Palmieri in 1948. Gli italiani nell’anno della svolta di imminente pubblicazione per i tipi del Mulino — non era affatto scontato. Sulla base dei risultati di precedenti turni di amministrative, comunisti e socialisti credevano di poter agevolmente sopravanzare la Dc. Invece lo scrutinio assegnò a sorpresa un trionfo alla Dc (che ottenne la maggioranza assoluta dei seggi), e decretò l’insuccesso di Pci e Psi, distanziati di quasi 20 punti.
Tre mesi dopo, il 14 luglio, un giovane siciliano iscritto al Partito liberale, Antonio Pallante squilibrato e senza mandanti), attenta alla vita di Palmiro Togliatti mentre sta uscendo, assieme a Nilde Iotti, da un portone secondario di Montecitorio.
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Il nostro Calendario: 9 Luglio

1978, 9 luglio: il giuramento del Presidente

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Il Giuramento del Presidente
Giuro di essere fedele alla Repubblica e di osservare lealmente la Costituzione

Onorevoli senatori, onorevoli deputati, signori delegati regionali!
Nella mia tormentata vita mi sono trovato più volte di fronte a situazioni difficili e le ho sempre affrontate con animo sereno, perché sapevo che sarei stato solo io a pagare, solo con la mia fede politica e con la mia coscienza.
Adesso, invece, so che le conseguenze di ogni mio atto si rifletteranno sullo Stato, sulla nazione intera.
Da qui il mio doveroso proposito di osservare lealmente e scrupolosamente il giuramento di fedeltà alla Costituzione, pronunciato dinanzi a voi, rappresentanti del popolo sovrano.
Dovrò essere il tutore delle garanzie e dei diritti costituzionali dei cittadini.
Dovrò difendere l’unità e l’indipendenza della nazione nel rispetto degli impegni internazionali e delle sue alleanze, liberamente contratte.
Dobbiamo prepararci ad inserire sempre più l’Italia nella comunità più vasta che è l’Europa, avviata alla sua unificazione con il parlamento europeo, che l’anno prossimo sarà eletto a suffragio diretto.
L’Italia a mio avviso, deve essere nel mondo portatrice di pace: si svuotino gli arsenali di guerra, sorgente di morte, si colmino i granai, sorgente di vita per milioni di creature umane che lottano contro la fame.
Il nostro popolo generoso si è sempre sentito fratello a tutti i popoli della terra.
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