Il 12 novembre del 1989
Il 12 novembre del 1989 era domenica. Dalle 11 del mattino un gruppo di partigiani si era riunito in una sala comunale in via Tibaldi 17 a Bologna per le celebrazioni del quarantacinquesimo anniversario della battaglia di Porta Lame, un episodio della Resistenza italiana combattuto in alcuni quartieri di Bologna, tra cui Lame, Bolognina e Corticella, poi inglobati nel quartiere Navile.
Achille Occhetto partecipò a sorpresa all’incontro. In sala erano presenti solo due cronisti, il primo dell’Unità, l’altro dell’Ansa. Occhetto chiese la parola e parlò per circa sette minuti per quello che doveva essere un discorso commemorativo, di circostanza. Occhetto disse che era tempo di «andare avanti con lo stesso coraggio che fu dimostrato durante la Resistenza (…) Gorbaciov prima di dare il via ai cambiamenti in URSS incontrò i reduci e gli disse: voi avete vinto la Seconda guerra mondiale, ora se non volete che venga persa non bisogna conservare ma impegnarsi in grandi trasformazioni». Disse anche le parole poi diventate più celebri: era necessario «non continuare su vecchie strade ma inventarne di nuove per unificare le forze di progresso». Al cronista che gli chiese se le sue parole lasciassero presagire che il PCI avrebbe potuto anche cambiare nome, lui rispose: «Lasciano presagire tutto».
La “svolta”, secondo il racconto più diffuso, fu annunciata da Occhetto senza consultare il partito e questo fatto gli verrà rimproverato. Il giorno dopo l’annuncio la prima pagina dell’Unità (il direttore a quel tempo era Massimo D’Alema) titolava «Il giorno di Modrow. La Repubblica democratica tedesca elegge un nuovo premier». Al centro si trovava l’articolo sulla “svolta della Bolognina” intitolato: “Occhetto ai veterani della Resistenza: «Dobbiamo inventare strade nuove»”.
Della “svolta” si discusse ufficialmente il 13 novembre in segreteria del PCI e per altri due giorni in Direzione. Il tutto venne però rinviato al Comitato Centrale, che si aprì il 20 dello stesso mese. In quei giorni iniziarono comunque a delinearsi le diverse posizioni all’interno del PCI: da una parte quella che potremmo definire “la destra” del partito, fedele a Occhetto, e dall’altra parte “la sinistra” che assunse un iniziale atteggiamento di prudenza. Almeno fino al rientro da Madrid di Pietro Ingrao, storico leader della sinistra del PCI, che dichiarò: «Non sono d’accordo con la proposta avanzata da Occhetto. Spiegherò il mio dissenso nel Comitato centrale».
il Nome e la Cosa
Il 20 novembre si aprì il Comitato Centrale a Roma in via delle Botteghe Oscure. I suoi 300 membri discussero della svolta per cinque giorni (venendo accolti da 200 militanti in protesta). Nella sua relazione introduttiva Occhetto affermò di «condividere il tormento» dei compagni, ma chiese: «Fino a quando una forza di sinistra può durare senza risolvere il problema del potere, cioè di un potere diverso?». Da qui l’idea di fare un nuovo partito con altri partiti di sinistra (la «sinistra diffusa») per poi andare al governo col PSI e altri e con la DC all’opposizione. Occhetto chiuse avvertendo però che «prima viene la cosa e poi il nome. E la cosa è la costruzione in Italia di una nuova forza politica». Da quel momento in poi il dibattito sulla svolta della Bolognina sarà anche chiamato come il “dibattito sulla Cosa”. Nanni Moretti ci girò un documentario, intitolato appunto La Cosa, raccontando le discussioni – senza alcun commento – all’interno di alcune sezioni del Partito Comunista Italiano proprio nei giorni successivi alla proposta di Occhetto:
Il Comitato Centrale si concluse il 24 novembre con il voto di 326 membri su 374: i sì furono 219, i no 73 e gli astenuti 34. Il Comitato Centrale assunse la proposta del segretario «di dar vita ad una fase costituente di una nuova formazione politica», ma allo stesso tempo accettò la proposta delle opposizioni di indire un congresso straordinario entro quattro mesi. Il XIX e penultimo congresso del PCI si tenne dal 7 all’11 marzo del 1990. Le mozioni discusse furono tre: quella del segretario Achille Occhetto; quella firmata da Alessandro Natta e Pietro Ingrao, che invece si opponeva ad una modifica del nome, del simbolo e della tradizione; quella proposta da Armando Cossutta, simile alla seconda. Vinse la mozione di Occhetto con il 67 per cento delle preferenze: Achille Occhetto venne riconfermato segretario e pianse.
Il Muro di Berlino (in tedesco: Berliner Mauer, nome ufficiale: Antifaschistischer Schutzwall, Barriera di protezione antifascista) era un sistema di fortificazioni fatto costruire dal governo della Germania Est (Repubblica Democratica Tedesca, filosovietica) per impedire la libera circolazione delle persone tra il territorio della Germania Est e Berlino Ovest (Repubblica Federale di Germania). È stato considerato il simbolo della cortina di ferro, linea di confine europea tra le zone controllate da Francia, Regno Unito e U.S.A. e quella sovietica, durante la guerra fredda.
Il muro, che circondava Berlino Ovest, ha diviso in due la città di Berlino per 28 anni, dal 13 agosto del 1961 fino al 9 novembre 1989, giorno in cui il governo tedesco-orientale si vide costretto a decretare la riapertura delle frontiere con la repubblica federale. Già l’Ungheria aveva aperto le proprie frontiere con l’Austria il 23 agosto 1989, dando così la possibilità di espatriare in occidente ai tedeschi dell’Est che in quel momento si trovavano in altri paesi dell’Europa orientale.
Tra Berlino Ovest e Berlino Est la frontiera era fortificata militarmente da due muri paralleli di cemento armato, separati dalla cosiddetta “striscia della morte”, larga alcune decine di metri. Durante questi anni, in accordo con i dati ufficiali, furono uccise dalla polizia di frontiera della DDR almeno 133 persone mentre cercavano di superare il muro verso Berlino Ovest. In realtà tale cifra non comprendeva i fuggiaschi catturati dalla DDR: alcuni studiosi sostengono che furono più di 200 le persone uccise mentre cercavano di raggiungere Berlino Ovest o catturate e in seguito assassinate.
Il 9 novembre 1989, dopo diverse settimane di disordini pubblici, il governo della Germania Est annunciò che le visite in Germania e Berlino Ovest sarebbero state permesse; dopo questo annuncio molti cittadini dell’Est si arrampicarono sul muro e lo superarono per raggiungere gli abitanti della Germania Ovest dall’altro lato in un’atmosfera festosa. Durante le settimane successive piccole parti del muro furono demolite e portate via dalla folla e dai cercatori di souvenir; in seguito fu usata attrezzatura industriale per abbattere quasi tutto quello che era rimasto. Ancora oggi c’è un grande commercio di piccoli frammenti, molti dei quali falsi.
La caduta del muro di Berlino aprì la strada per la riunificazione tedesca che fu formalmente conclusa il 3 ottobre 1990.
1944: via Maqueda, Palermo, la prima strage di Stato
Una strage di cui non esiste alcuna testimonianza fotografica.
Giornale di Sicilia del 20 ottobre, n.130, sotto il titolo Luttuosi incidenti a Palermo durante una manifestazione contro il carovita si poteva leggere: «Poco prima di mezzogiorno molte migliaia di scioperanti sono affluiti in via Maqueda […]. La folla con alte grida ha chiesto insistentemente il pronto intervento delle Autorità per reprimere gli abusi del mercato annonario, che provoca insostenibili disagi fra le classi lavoratrici a reddito fisso. Poco dopo le forze di polizia […] sono state rafforzate da reparti di soldati inviati d’urgenza a bordo di autocarri. Il primo autocarro carico di soldati, proveniente da piazza Vigliena si inoltrava in mezzo alla folla. Ad un tratto sono rintonate delle detonazioni…».
Nelle stesse ore da Roma il governo rendeva nota la propria versione dei fatti tramite un comunicato, fuorviante e cinico, del sottosegretario per la stampa e le informazioni. «In occasione di una dimostrazione diretta ad ottenere miglioramenti di carattere economico, compiuta ieri a Palermo da impiegati delle banche e dall’esattoria, gruppi estranei sobillati, da elementi non ancora chiaramente identificati, prendevano l’iniziativa d’inscenare una manifestazione sediziosa. Davanti alla sede dell’Alto Commissariato [Palazzo Comitini, che ospitava anche la prefettura] venivano esplosi colpi di d’arma da fuoco contro reparti dell’Esercito, che erano stati costretti a reagire. Si deplorano 16 morti e 104 feriti. L’ordine pubblico è stato ristabilito. Il Comitato provinciale di Liberazione nazionale si è subito riunito ed ha dichiarato di mettersi a disposizione dell’Autorità governativa locale per la ricerca dei responsabili della manifestazione sediziosa».
Si apprenderà, poi, che il numero delle vittime era più alto e la dinamica dei fatti non veritiera, come ha avuto modo di raccontare in modo documentato Lino Buscemi: «Una spontanea manifestazione di popolo fu brutalmente repressa con bombe a mano e moschetti da soldati dell’esercito italiano. Italiani contro fratelli italiani di Palermo […]. Il sangue scivolò a fiotti lungo la via Maqueda e nelle traverse vicine. Gravissimo il bilancio: 24 morti e 158 feriti, accertati sia dalla commissione d’inchiesta appositamente nominata che dalla discussa sentenza del tribunale militare di Taranto», che peraltro «avrebbe escluso dall’elenco le vittime Cataldo Natale di anni 35 e Monti Carlo di anni 34, in quanto non vi erano prove sufficienti per accertare che fossero realmente deceduti a causa della sparatoria di via Maqueda. Le sole due donne decedute, Anna Pecoraro e Cristina Parrinello, lavoravano proprio di fronte la prefettura, in una stireria. Atroce la loro morte: i soldati scagliarono la loro bomba proprio dentro il negozio!». Nessun colpo di arma da fuoco fu dunque esploso, il 19 ottobre, contro i militari. (…)
Dalla primavera del 1788 in Francia la situazione è ormai catastrofica. La crisi dell’agricoltura causata dal freddo e disastrose grandinate riducono i villaggi alla miseria. A Parigi il prezzo del pane raddoppia e aumenta anche lo scontento popolare, mentre in molte province scoppiano disordini. A Versailles, invece, il re Luigi XVI e la regina Maria Antonietta danno scandalo per il fasto dei loro banchetti, per lo sfoggio di abiti lussuosissimi e per la vita economicamente dissoluta, mentre il paese è sull’orlo della bancarotta. Luigi XVI ricorre a Jacques Necker, politico ed economista svizzero, come ministro dell’economia. Il suo principale tentativo è quello di ottenere la ripartizione egualitaria nel pagamento delle tasse, da cui nobiltà e clero erano esclusi. Le classi borghesi e popolari, riunite nel “Terzo Stato”, sono i ceti che soffrono maggiormente il peso tributario. Il 5 maggio 1789 viene indetta l’Assemblea degli Stati Generali. Sono passati ben 175 anni dall’ultima volta. Il “Terzo Stato” ha la maggioranza numerica di deputati, ma il suffragio si svolgerà non per voto pro capite, bensì per ordine sociale, soluzione quest’ultima che avvantaggerebbe l’alleanza fra clero e nobiltà. Ma il 20 giugno del 1789, il “Terzo Stato”, insieme ad una piccola percentuale di esponenti degli altri due ceti, si ritira dagli Stati Generali per costituire “L’Assemblea dei deputati della Nazione”. La loro autoproclamazione è di fatto un affronto al Re in persona. La soluzione politica che Luigi XVI aveva affidato al ministro Necker, è ormai irrealizzabile. La nuova Assemblea si ritira nella sala dedicata al gioco della palla corda, per proclamare un giuramento solenne.
La destituzione del ministro delle Finanze Jaques Necker, da parte del sovrano Luigi XVI, è per Parigi la prova inconfutabile della congiura aristocratica, il segno della bancarotta e della controrivoluzione. Così la mattina del 14 luglio 1789 la popolazione parigina insorge, riversandosi nelle strade con una bandiera tricolore: nasce la drapeau française. Il rosso e il blu simboleggiano Parigi, il bianco è il colore della dinastia borbonica. Quella mattina settemila insorti attaccano l’armeria de l’Hotel Des Invalides.
Targa all’angolo tra rue Saint-Antoinet e rue Jacques Coeur, Parigi 4° arrond.
Il bottino è di quasi trentamila fucili e diversi cannoni, ma della polvere da sparo nessuna traccia. Il popolo però sa dove trovarla: a Saint Antoine, nel centro della città, dove sorge la fortezza della Bastiglia. Prende avvio l’assedio di questo tetro carcere, simbolo dell’Ancien Régime, costruito sotto il regno di Carlo V, che detiene al momento dell’insurrezione solo sette prigionieri: quattro falsari, il Conte di Solages e due folli. Annientata l’ultima resistenza delle guardie del comandante De Launay, la Bastiglia è presto conquistata da migliaia di rivoltosi.
Prise de la Bastille, gravure « «d’après des estampes d’époque » parue en 1897 dans les «Annales politiques et littéraires »
Luigi XVI, sconvolto, decide di riassumere il ministro Jacques Necker e spera in una tregua, ma la protesta è ormai dilagata nelle maggiori città del paese e non solo. Le notizie che giungono da Parigi, unite all’insostenibile condizione determinata da più di un decennio di recessione, spingono alla ribellione. A dare adito all’insurrezione è la rabbia accumulata, la carestia e la disperazione della popolazione francese. Con la presa della Bastiglia e il martirio dei parigini uccisi per la libertà, si accende la prima scintilla della Rivoluzione, un colpo violento che sarà il primo di una lunga serie. Da quel 14 luglio 1789, la rivolta, divenuta rivoluzione, ha trionfato sul potere assoluto, delineando le sorti di una Nazione. E, per la Francia così come per tutti i popoli dell’Europa, niente sarà più come prima.
La “festa della Federazione”, il 14 luglio 1790, celebra in pompa magna il primo anniversario dell’insurrezione. A Parigi, al Campo di Marte, Talleyrand celebra una messa sull’altare della patria.
Su proposta di legge del deputato della Seine, Benjamin Raspail, il 14 luglio diventa festa nazionale della Repubblica.
Ascolta La Marsigliese, che diventerà inno nazionale francese il 15 luglio 1795, cantata da Georges Thill
Qui il primo episodio di una serie in quattro puntate coprodotta dalla Rai, sulla Rivoluzione francese.
Crediamo un po’ tutti di sapere qualcosa di quanto è successo in Cina, in particolare a Pechino, trent’anni fa. Classifichiamo genericamente i «fatti di Tian’anmen» come caratterizzati da proteste e richieste di riforme democratiche da parte degli studenti e dalla dura risposta del Partito comunista che portò al «massacro di Tian’anmen».
Sappiamo anche che Pechino ha cancellato quelle giornate dalla storia: non se ne parla, non se ne può parlare, non si trova niente al riguardo sulla rete cinese «armonizzata», ma non sarà più facile trovare un giovane cinese che ne sappia qualcosa. Questi sono tutti fatti piuttosto noti. In verità, però, nelle giornate di maggio e giugno 1989 confluirono molti più elementi.
Intanto in piazza c’era molta gente, studenti e non solo. Certo, le storie dei «leader» della piazza pechinese hanno avuto ampia attenzione mediatica anche anni dopo i fatti: alcuni sono riusciti a scappare, grazie alla solidarietà di molte persone; alcuni hanno raggiunto Hong Kong e da lì sono poi volati negli Stati Uniti.
C’è chi ha raccontato quelle giornate, chi ha cambiato vita, chi è diventato miliardario, chi si è convertito al cristianesimo. Meno particolari – invece – si conoscono delle vite dei morti (300 per il Partito comunista, molti di più, migliaia per attivisti, familiari delle vittime e alcune organizzazioni umanitarie), così come sulle storie delle migliaia di persone arrestate (l’ultimo a essere uscito di prigione nel 2016 era un operaio, mentre molti dei protagonisti di quei giorni si ritrovano in The People’s Republic of Amnesia: Tian’anmen Revisited di Louisa Lim).
Si è discusso poco – sui media – delle problematiche insite all’interno dello stesso «movimento studentesco» (a questo proposito Pechino è in coma di Ma Jian è un ottimo libro per comprendere anche alcuni errori e limiti della protesta studentesca).
Ancora meno si conoscono – o non si sottolineano – le condizioni economiche e il «clima» delle fabbriche in quegli anni cruciali anche per la Cina di oggi. Analogamente la scelta di scatenare l’esercito contro le persone in strada e nelle piazze effettuata dal Partito comunista, avvenne in un momento drammatico per il Pcc: la Rivoluzione Culturale, almeno i suoi strascichi, erano terminati solo da dieci anni.
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Le riforme volute da Deng Xiaoping stavano velocemente cambiando il paese, portando a valutare il «rendimento» degli stessi funzionari in maniera diversa da quanto accadeva in passato.
Il Partito stava passando dalla «gestione politica» del paese a quella «economica»: ne conseguirono problematiche del processo di cambiamento e un generale dilagare della corruzione, uno dei tanti motivi della contestazione di quel periodo.
Anche per questa complessità, «i fatti di piazza Tian’anmen» sono ancora al centro di analisi e, talvolta, di nuove rivelazioni.
In mezzo al marasma di diverse interpretazioni, valutazioni e consuete semplificazioni, rimane quanto avvenuto: il massacro perpetrato ai danni di studenti, operai e semplici cittadini pechinesi; rimane la drammatica decisione del Partito comunista di procedere alla repressione al termine di uno scontro interno che segnerà per sempre la vita del Pcc; rimane la «primavera cinese», frutto di un periodo di intensa vivacità politica e culturale durante gli anni ’80 in Cina.
Il 1989 è fondamentale nella storia recente della Cina, perché è l’anno nel quale si rinnova il contratto sociale tra popolazione cinese e Partito comunista, proiettando il paese verso la crescita economica che l’ha portata, oggi, ad essere una potenza globale.
Cominciamo dalla fine: il massacro di Pechino
Nel giugno del 1998 il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton si recò in Cina e partecipò alla cerimonia di benvenuto in piazza Tian’anmen a Pechino. I media americani criticarono il presidente: Clinton – questa l’accusa – in nome del riavvicinamento alla Cina dopo l’embargo dovuto ai fatti del 1989 – celebrava proprio sulla Tian’anmen l’oblio che il Partito comunista aveva sancito su quanto era accaduto.
A questo proposito, è interessante osservare come dal 1949 in avanti Washington si sia sempre dimostrata molto preoccupata della Cina durante la sua fase «maoista». Si trattava di una preoccupazione ideologica, naturalmente, basata sulla paura che il comunismo si diffondesse sempre di più; poi, con le aperture di Deng Xiaoping, gli Usa – ben felici di spezzare il fronte comunista internazionale e isolare l’Unione sovietica – hanno cominciato un lungo processo di avvicinamento alla Cina, finendo per accompagnare Pechino verso il Wto (l’adesione cinese arriverà nel 2001, mentre si contestava la globalizzazione a Genova e quando la storia degli Usa stava per cambiare per sempre).
Per supportare l’ingresso della Cina nei meccanismi economici mondiali, gli Usa hanno deciso di ingoiare anche episodi come quelli del 1989, creandosi così il «nemico» futuro e dimostrando di sbagliare più volte la valutazione circa la possibilità che le riforme economiche avrebbero portato automaticamente la democrazia.
Anzi, proprio il 1989 dimostra il contrario: fu quanto accadde il 4 giugno 1989 a sancire la via autoritaria al capitalismo globale della Cina. Secondo Naomi Klein, fu quello «shock» a immettere definitivamente la Cina nella carreggiata neoliberista della globalizzazione.
Tornando al 1998: sulla visita di Clinton in Cina e le polemiche relative al luogo simbolo di quanto accadde nel 1989, intervenne Jay Mathews, giornalista del Washington Post presente a Pechino nel 1989. Mathews si sentì in dovere di specificare – dieci anni dopo – qualcosa riguardo i fatti di Tian’anmen, partendo da un’apparente questione di lana caprina: associare la parola «massacro» a «Tian’anmen», sostiene, è un errore, perché nella piazza non vi fu alcun massacro.
I morti ammazzati dall’esercito non sono messi in dubbio ma Mathews, come tanti altri testimoni, giornalisti e non, ricorda che «il governo cinese stima più di 300 morti. Le stime occidentali sono leggermente più alte. Molte vittime sono state uccise da soldati nelle distese di Changan Jie, il viale dell’Eterna pace, a circa un miglio a ovest della piazza, e in scontri sparsi in altre parti della città, dove, va aggiunto, alcuni soldati sono stati picchiati o bruciati a morte da lavoratori arrabbiati».
Precisiamo subito una cosa: nessuno – a parte qualche iper complottista o negazionista improvvisato – mette in dubbio quanto accaduto a Pechino, e in altre città della Cina, nel 1989.
Ma, come scrive, Mathews, cominciare a precisare come l’informazione abbia «semplificato» i fatti, permette anche di comprendere una prima importante complessità di quanto accaduto nel 1989.
«Il problema – specifica Mathews – non è tanto quello di mettere gli omicidi nel posto sbagliato, ma suggerire che la maggior parte delle vittime fossero studenti. Come scrivono in Black Hands of Beijing: Lives of Defiance in China’s Democracy Movement, George Black e Robin Munro, quello che accadde non fu il «massacro» degli studenti, ma dei lavoratori e dei residenti ordinari – esattamente l’obiettivo che il governo cinese si era prefisso».
Black e Munro sostengono inoltre che la repressione più violenta si è verificata nella periferia occidentale di Pechino, non in piazza Tian’anmen. Lì, come ha sostenuto Jonathan Fenby, esperto di Asia e Cina, c’è stato un «massacro» contro operai e residenti. Centinaia di lavoratori sono stati macellati per le strade. Ecco perché alcuni studiosi e dissidenti cinesi preferiscono usare l’espressione «il massacro di Pechino» anziché il massacro di piazza Tian’anmen.
Il Partito
In che modo il Partito comunista ha assistito all’aumento delle proteste, concomitanti, a fine maggio, con la visita in Cina di Michail Gorbacev? Si tratta di uno dei temi più interessanti di quanto ruota intorno al 1989: il Partito comunista attraversò molte vite in quei giorni, vi furono epurazioni, scontri terribili, la constatazione di un «comitato permanente» parallelo composto dagli «Otto Immortali» e addirittura la nomina – con metodi che di fatto furono incostituzionali – di Jiang Zemin, allora sindaco di Shanghai, a nuovo segretario del Partito comunista.
Il fatto che ad essere ammazzati per lo più furono i lavoratori, permette di capire anche il modo attraverso il quale il Partito filtrò quando proveniva dall’esterno, non tanto e non solo da piazza Tian’anmen. Nel 1989 il Partito aveva già provveduto da due anni a eliminare politicamente Hu Yaobang, un riformista considerato troppo indulgente con le proteste che dal 1986 avevano cominciato a caratterizzare quella stagione cinese.
Hu Yaobang morirà il 15 aprile del 1989 per un attacco di cuore durante una riunione del Partito e il cordoglio per la sua morte diventerà la miccia definitiva per la protesta degli studenti che da allora occuperanno Tian’anmen.
Fu Deng Xiaoping a decidere l’epurazione, pur essendo Hu Yaobang il suo erede designato (e Hu sarà riabilitato solamente nel 2005). Proprio il vecchio Deng era il grande manovratore dal Pcc, nonostante vivesse in una abitazione privata, distante da Zhongnanhai, il Cremlino cinese; era dotato di uno staff in grado di rifornirlo di informazioni costanti su quanto stava accadendo nel paese.
Nell’abitazione del vecchio Deng si svolgeranno le riunioni più importanti in quei giorni concitati del giugno 1989. Deng, grande classe politica e abilità strategica, comprese subito il problema: se la protesta degli studenti si fosse allargata agli operai sarebbe stato un disastro per il Pcc.
Le riforme, ripeterà più volte, devono procedere e per procedere serve ordine, serve che la popolazione lavori, invece che protestare.
Sistemato Hu Yaobang tutto sembrava potenzialmente risolto, ma il suo sostituto Zhao Ziyang era ugualmente un riformatore, fatto che costitituì ben presto un problema per gli «Otto Immortali».
Nel 2001 è stato pubblicato un libro, Tian’anmen Papers, che contiene materiale davvero straordinario per comprendere al meglio quanto accade all’interno del Pcc in quelle giornate.
Come racconta Marina Miranda in Mondo Cinese nel 2001, si tratta di «una raccolta di documenti neibu, cioè altamente riservati e a circolazione limitata all’interno del Partito Comunista Cinese». Questi riservatissimi documenti sarebbero stati rilasciata da una persona molto interna ai meccanismi fondamentali del Partito.
Il whistlebowler della situazione ha scelto un nome particolare. Zhang Liang, «presumibilmente un alto funzionario del Partito; la scelta di tale nome – scrive Miranda – ha un chiaro significato politico: è quello di uno stratega scomparso nel 187 a.C.3, noto per il suo odio contro l’esecrata dinastia Qin (221-207 a.C.), al cui governo tirannico viene paragonato il regime del Partito Comunista». Ai Qin fu associato – naturalmente – anche Mao. E di recente perfino Xi Jinping. I Qin, secondo il sinologo Kai Vogelsang, non solo realizzarono la prima idea di Impero cinese come siamo abituati a concepirla oggi, ma crearono un sistema sociale ipercontrollato.
Tornando al 1989: i documenti di Tian’anmen Papers sono preziosi, e ci si è interrogati non poco sulla loro autenticità. A questo proposito Miranda risolve la querelle come molti altri esperti di Cina, ovvero affidandosi, giustamente, al prestigio di chi quei documenti li ha raccolti: «come garanzia dell’autenticità del materiale può, tuttavia, essere considerata la fama di serietà accademica di cui godono i curatori del volume, Perry Link, docente di Lingua e Letteratura Cinese all’Università di Princeton e Andrew J. Nathan, docente di Scienza Politica alla Columbia University».
Gli anni ‘80 e le proteste
Ilaria Maria Sala, presente a Pechino nel 1989, ha raccontato di recente lo spirito di quella primavera cinese: il 1989, infatti, è l’acme di una stagione davvero particolare in Cina: alla fine degli anni ’80 «il paese era nel pieno del fermento sociale, politico e culturale, scrive Ilaria Maria Sala, un mondo che era inebriante di possibilità: riviste e giornali erano più interessanti, con lunghi pezzi investigativi in pubblicazioni come Baogao Wenxue (Reportage letterario)».
Nel 1988 «c’era una profondità di riflessione sulla storia cinese», vennero poste nuove domande sull’identità e la cultura cinese. Perry Link della Princeton University, uno degli studiosi cinesi che si è occupato dei Tian’anmen Papersraccontava, scrive Sala, che «In tutti i campi, ogni intellettuale stava facendo queste grandi domande. Si tratta di un enorme contrasto con quanto accade oggi».
Le possibilità sembravano infinite. Nel campus, «le bacheche pubblicizzavano corsi di lingua e danza e forum di discussione che permettevano agli studenti di parlare abbastanza liberamente su una varietà di argomenti».
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Contemporaneamente c’era un mondo del lavoro in pieno stravolgimento.
Da un punto di visto economico il periodo di Riforme aveva creato due tendenze evidenti: la proletarizzazione di larghe masse della popolazione e la nascita di una nuova categoria di capitalisti.
Il processo di proletarizzazione è avvenuto grosso modo attraverso tre fattori: la migrazione forzata dalle campagne alle città, il collasso delle imprese statali nelle città e la dissoluzione delle imprese di villaggio. Lo spostamento rurale verso le città è stato vasto, contando circa 120 milioni di persone dal 1980, si tratta della la più grande migrazione nella storia del mondo (Walker R. & Buck D., The Chinese road, Cities in the Transition to Capitalism, New Left Review, Agosto 2007).
Un secondo fattore responsabile della creazione di una nuova classe salariale in Cina è stato lo smantellamento delle imprese di proprietà statale (SOE).
Le SOE erano state il fulcro dell’industrializzazione maoista, pari a quasi quattro quinti della produzione non agricola. La maggior parte di questi colossi era situata nelle città, dove erano impiegati circa 70 milioni di persone nel 1980. Il primo smantellamento è cominciato nel 1988 e ha avuto una sua rapida esecuzione dopo lo shock del 1989, quando un altro giro di vite è arrivato all’interno di un’economia surriscaldata e inflazionistica.
Ulteriori riforme sono state effettuate nel decennio successivo, a confermare l’importanza di quanto avvenuto nel 1989: nel 1994 venne incoraggiata l’efficienza attraverso la riduzione della forza lavoro. Questa direttiva ha dato luogo ai licenziamenti di massa alla fine del 1990, quando il capitalismo cinese ha conosciuto la sua prima crisi di sovrapproduzione, «segnando una netta transizione dalla vecchia economia della scarsità alla nuova economia del surplus». Il risultato fu clamoroso: nei primi anni del 2000 l’occupazione nelle imprese statali era stata dimezzata, 40 milioni di persone si ritrovarono senza la tradizionale «ciotola di riso», simbolo e garanzia delle vecchie imprese di stato.
Per questo gruppo di individui, quasi sempre di mezza età, si apriva la prospettiva di trasformarsi in una sorta di «sottoclasse urbana»: come spiega Dorothy Solinger in Social Exclusion and Marginality in Chinese Societies (Hong Kong Polytechnic University, Centre for Social Policy Studies, 2003) «ironia della sorte, nella sua marcia verso la modernizzazione e la riforma economica, anche se la leadership cinese ha scatenato e incoraggiato le forze del mercato, contemporaneamente si è arrestato il pieno dispiegarsi di alcuni dei processi sociali principali che generalmente emergono altrove, come effetto della mercificazione.
Così in Cina, invece dell’aumento dei livelli di istruzione e l’imborghesimento di una larga parte della classe operaia come è successo in altri luoghi in concomitanza con lo sviluppo economico – e così vicini alla Cina, come la Corea del Sud , Giappone e Taiwan – questa informalizzazione dell’economia urbana ha rappresentato invece una regressione, per molta parte della popolazione urbana».
Peraltro questa fascia di popolazione urbana, doveva affrontare un difficile riposizionamento sociale e lavorativo, data la propria origine «culturale»: «la stragrande maggioranza di costoro sono stati privati di istruzione formale perché costretti a lasciare la scuola per partecipare alla rivoluzione culturale (e la maggior parte di loro ha vissuto un lungo periodo nelle campagne) nel corso del decennio dopo il 1966».
Questi processi che arrivano al loro culmine negli anni ‘90 sono figli di quanto accaduto in Cina a fine degli anni ‘80. Nell’ottobre del 1983 il Quotidiano del Popolo scriveva che i lavoratori cinesi non potevano certo lamentarsi: la recessione in gran parte del mondo capitalista nei primi anni ’80 consentiva alle autorità cinesi di ricordare ai lavoratori in patria che non avevano mai avuto tanto benessere, indicando l’alta disoccupazione in Occidente come prova della «superiorità del socialismo».
Per la dirigenza cinese quello era il momento giusto per ricordare i propri successi: come ha scritto Jackie Sheehan in Chinese Workers, a new history(London and New York, 1998), si era in una situazione nella quale «alcuni lavoratori già sentivano i benefici di un aumento delle retribuzioni e dei bonus previsti dalle riforme e tutti si aspettavano di beneficiarne nel prossimo futuro».
Ma queste aspettative finirono per scontrarsi con la realtà: «Tra i lavoratori l’idea di Deng Xiaoping sulle possibilità di arricchimento non era granché accettata» perché cominciavano ad emergere ingiustizie palesi: «Molti lavoratori furono profondamente offesi dalle differenze salariali. Il risentimento particolarmente acuto era stato generato dal crescente divario tra i bonus pagati ai lavoratori e quelli ricevuti dal top management dell’impresa, che a volte potevano essere venti o trenta volte superiori al salario di un lavoratore».
Ma gli effetti negativi delle riforme sulle relazioni tra lavoratori e quadri sono ben presto andati «oltre le dispute sull’aumento delle disparità di reddito, per quanto gravi fossero».
In un momento in cui veniva richiesta una sempre maggiore efficienza ai lavoratori, Deng lo ripeterà più volte nel corso delle ore concitate di maggio e giugno 1989, «le carenze di gestione diventavano un punto di discordia più significativo che mai». Dopo aver dunque manifestato solidarietà agli studenti, anche i lavoratori ben presto cominciarono a ribollire nel calderone cinese del 1989.
I «disordini» e l’esito finale
In questo contesto, la presenza degli studenti in piazza Tian’anmen cominciò a procurare preoccupazione nel Partito comunista, timoroso di tornare alla Rivoluzione Culturale.
Sarebbe stato lo stesso Deng a esprimere questo cruccio, usando per la prima volta nell’ambito di una discussione il termine «disordini».
E sarà lo stesso termine che userà l’editoriale del Quotidiano del Popolo che il 26 aprile condanna in modo inequivocabile le proteste degli studenti. Il 26 aprile sarà la data di non ritorno della relazione tra il Partito comunista e chi protestava.
Da quel momento Deng lavorerà ai fianchi il comitato permanente, fino al drammatico voto sulla legge marziale (che sarà poi revocata solo nel 1990). Nella sua corrispondenza del 20 luglio 1989 sul The New York Review Of Books, Roderick MacFarquhar scriveva che «Diviso al vertice, il Partito comunista cinese non poteva più far fronte alle molteplici pressioni finendo per disgregarsi.
Mentre il premier Li Peng agiva da frontista incallito, era chiaro che le decisioni furono prese non dal Consiglio di Stato, né dal Politburo, né dal comitato permanente di cinque uomini, ma dal duumvirato responsabile della Commissione per gli affari militari, Deng Xiaoping e il presidente Yang Shangkun».
Il voto sulla legge marziale esplicita questo meccanismo particolare che si venne a creare: fondamentalmente solo Zhao Ziyang era favorevole ad ascoltare gli studenti e addirittura a favore di una sorta di «sconfessione» dell’editoriale del 26 aprile (idea che fu bocciata in modo fragoroso in particolare da Bo Yibo, uno degli Otto Immortali e padre del più recentemente noto Bo Xilai).
Tra il 26 e il 27 il comitato permanente del Politburo si ritrova a votare per la legge marziale.
I cinque membri votarono così: Li Peng e Yao Yilin si dichiararono favorevole, Zhao Ziyang contrario. Qiao Shi si astenne. A quel punto la palla passava agli Otto Immortali: i giochi erano fatti.
Come si legge sui Tian’anmen Papers, «La mattina del 18 maggio, gli Otto Immortali Deng Xiaoping, Chen Yun, Li Xiannian, Peng Zhen, Deng Yingchao, Yang Shangkun, Bo Yibo e Wang Zhen incontrarono i membri del Comitato permanente del Politburo Li Peng, Qiao Shi, Hu Qili e Yao Yilin e i membri della Commissione degli affari militari, il generale Hong Xuezhi, Liu Huaqing e il generale Qin Jiwei»: in questa occasione, di fatto, venne approvata la legge marziale.
Il segretario generale Zhao Ziyang non partecipò all’incontro: da lì a poco sarebbe stato esautorato. Prima di ritrovarsi agli arresti domiciliari, dove rimarrà fino alla sua morte avvenuta nel 2005, Zhao si recò in piazza, tra gli studenti alle 4 del mattino del 19 maggio. Accompagnato dal direttore dell’ufficio centrale del Partito Wen Jiabao (che tra il 2002 e il 2012 è stato primo ministro della Repubblica popolare) Zhao disse agli studenti, «Siamo arrivati troppo tardi».
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In precedenza, il 18 maggio, Li Peng e altri funzionari del governo si erano incontrati nella Grande Sala del Popolo con Wang Dan, Wuerkaixi e altri rappresentanti degli studenti. «Li disse che nessuno aveva mai sostenuto che la maggior parte degli studenti fosse stata impegnata in disordini, ma che troppo spesso le persone che non avevano intenzione di creare disordini lo avevano effettivamente provocato. Rimase fermo sul testo dell’editoriale del 26 aprilee disse che non era il momento giusto per discutere le richieste degli studenti. Wang Dan aveva detto che l’unico modo per far uscire gli studenti da Piazza Tian’anmen era quello di riclassificare il movimento studentesco come patriottico e permettere un confronto televisivo con gli studenti».
Non c’era più spazio per il compromesso: la decisione di «ripulire» la piazza arrivò direttamente da Deng Xiaoping e nella notte tra il 3 e il 4 giugno avvenne «il massacro di Pechino».
Da quel giorno per le strade della Cina si attuò una vera e propria caccia all’uomo, mentre nelle stanze del Partito comunista andava formandosi un’idea ben chiara: quanto accaduto non sarebbe dovuto succedere mai più.
45 anni fa, la strage di Piazza della Loggia (Brescia)
Era il 28 maggio 1974 a Brescia: durante una manifestazione unitaria del sindacato, scoppia una bomba a Piazza della Loggia. È una strage fascista; i morti sono otto tra cui cinque attivisti della Cgil; oltre cento i feriti. Tra le vittime ci sono : Giulietta Banzi Bazoli di anni 34, Livia Bottardi Milani di anni 32, Clementina Calzari Trebeschi di anni 31, Euplo Natali di anni 69, Luigi Pinto di anni 25, Bartolomeo Talenti di anni 56, Alberto Trebeschi di anni 37, Vittorio Zambarda di anni 60. Le vittime furono Giulietta Banzi Bazoli, insegnante di francese, 34enne madre di tre bambini; Livia Bottardi, 32 anni, insegnante di lettere; Alberto Trebeschi, 37 anni, insegnante di fisica, e la moglie Clementina Calzari, 31 anni, anche lei docente; Euplo Natali, 69 anni, pensionato ed ex partigiano; Luigi Pinto, 25 anni, insegnante; gli operai Bartolomeo Talenti, 56 anni e Vittorio Zambarda, 60 anni.
Cinque delle vittime erano insegnanti, tra cui tre donne e un ragazzo del sud Italia. Con loro un operaio, legato agli insegnanti come a rappresentare l’unione scuola-lavoro e il lavoro come principio di solidarietà, e un ex partigiano, a segnare la continuità coi principi della Resistenza.
Questa la drammatica ricostruzione di quella terribile mattina di maggio, e le riprese della mobilitazione antifascista per i funerali di Stato, in un video di Luigi Perelli (fonte: Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico).
I processi per la strage del 28 maggio 1974
di Benedetta Tobagi
La vicenda giudiziaria relativa alla strage di piazza della Loggia si è dispiegata nell’arco di 43 anni, concludendosi nel 2017. Si compone di ben cinque fasi istruttorie e tredici fasi di giudizio, concluse da altrettante sentenze, nell’ambito di tre processi.
Primo processo, o “processo Buzzi”: tre sentenze (I grado, II grado e Cassazione) riguardanti le posizioni oggetto della prima istruttoria (Ermanno Buzzi e altre 15 persone); due sentenze (giudizio d’appello in sede di rinvio; Cassazione) relative alle posizioni (già oggetto della prima istruttoria) investite dal parziale annullamento della prima sentenza d’appello da parte della Corte di Cassazione.
La seconda istruttoria si conclude con una sentenza che proscioglie l’imputato.
Secondo processo, o “processo Ferri”: tre sentenze (I grado, II grado e Cassazione) riguardanti alcune delle posizioni (Cesare Ferri; Alessandro Stepanoff; Sergio Latini) oggetto della terza istruttoria;
La quarta istruttoria si conclude con una sentenza che proscioglie tutti gli imputati.
Terzo processo, o “processo agli ordinovisti”: tre sentenze (I e II grado e Cassazione) relative alla quinta istruttoria; due sentenze (giudizio d’appello in sede di rinvio; Cassazione) relative a due imputati della quinta istruttoria, condannati in via definitiva dalla Suprema Corte.
La prima istruttoria, formalizzata il 14 giugno 1974 (procedimento penale nr. 319/74-A, cosiddetto “processo Buzzi”) si conclude il 17 maggio 1977 con l’ordinanza-sentenza del giudice istruttore Domenico Vino, che accoglie in toto le richieste formulate dal pubblico ministero Francesco Trovato, sulla base di un’indagine condotta in larga parte dal capitano dei Carabinieri Francesco Delfino. Il giovane neofascista Cesare Ferri è prosciolto per non avere commesso il fatto, mentre sono rinviati a giudizio per strage (ex art. 422 c.p., ossia strage comune; solo a partire dal 1984 l’attentato di Brescia sarà derubricato ex art 285 c.p., ossia strage avente lo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato), dinanzi alla Corte d’Assise di Brescia, Ermanno Buzzi – un personaggio istrionico, estremista di destra, trafficante di opere d’arte e piccolo criminale – con i giovani fratelli Angelino e Raffaele Papa, a lui legati, ma non impegnati politicamente, e alcuni giovani della destra bresciana, tra cui Fernando (detto Nando) Ferrari, Arturo Gussago, Andrea Arcai, Marco De Amici. Buzzi e Nando Ferrari sono imputati anche per l’omicidio volontario di Silvio Ferrari. La strage quindi è inizialmente attribuita a un manipolo di piccoli criminali e neofascisti del bresciano, alcuni dei quali mentalmente fragili o instabili, a cominciare dal megalomane Buzzi. Un gruppo attivo esclusivamente a livello locale, senza complici né mandanti.
Il dibattimento del “processo Buzzi” comincia il 30 marzo 1978, in pieno sequestro Moro, e si conclude in primo grado, dopo sei giorni di camera di consiglio, con la sentenza del 2 luglio 1979. L’impianto accusatorio esce fortemente ridimensionato dal vaglio dibattimentale. Gli unici condannati per strage, sulla base della confessione di Angelino Papa, della testimonianza di Ugo Bonati, un ladruncolo di opere d’arte, e degli esiti della perizia sui messaggi del 21 e 27 maggio 1974 pervenuti ai due quotidiani locali, “Giornale di Brescia” e “Bresciaoggi”, sono Ermanno Buzzi e il reo confesso Angelino Papa. Suo fratello Raffaele Papa viene assolto per insufficienza di prove, tutti gli altri con formula piena. Per la morte di Silvio Ferrari viene riconosciuto colpevole – ma di omicidio colposo e non volontario – il solo Nando Ferrari. Con la sentenza, inoltre, Ugo Bonati passa dalla posizione di testimone a quella di soggetto da perseguire per concorso in strage e a tal fine viene disposta la trasmissione degli atti al Procuratore della Repubblica: è l’inizio della seconda istruttoria. Viene subito emesso ordine di cattura nei suoi confronti, ma dalla pronuncia del giudizio è sparito dalla circolazione. Da allora è svanito nel nulla. Nella motivazione della sentenza, i giudici redarguiscono con severità gli inquirenti per l’uso eccessivo della carcerazione preventiva (per indurre le persone coinvolte dall’indagine alla collaborazione).
La seconda istruttoria, detta “istruttoria Bonati” (procedimento penale nr. 566/79-A), dal nome dell’imputato, già teste-chiave della pubblica accusa nel “processo Buzzi”, è assegnata al pubblico ministero Michele Besson, che in precedenza si era occupato della strage di Piazzale Arnaldo del 16 dicembre 1976 (un morto, Bianca Gritti Daller, e dieci feriti, fra cui i carabinieri Giovanni Lai e Carmine Delli Bovi; imputati due noti pregiudicati bresciani legati ad ambienti dell’eversione nera). L’indagine demolisce in modo definitivo l’impianto accusatorio della prima istruttoria. Si conclude con la sentenza del 17 dicembre 1980, in cui Besson proscioglie il Bonati per non aver commesso il fatto, ma certifica che fu un teste falso, “calunniatore e autocalunniatore, ma necessitato da un ricatto”: voleva difendersi dalla spada di Damocle dell’imputazione (infondata) per concorso in strage. “Siffatto tipo di difesa ha determinato il Bonati a versare in causa elementi che, in sede di verifica storica, logica e processuale sono risultati totalmente falsi, privi di qualsiasi fondamento”, quali, per esempio la presunta bomba radiocomandata, un dispositivo la cui complessità era incompatibile con la totale impreparazione tecnica dei primi imputati per strage.
Il giudizio di secondo grado del “processo Buzzi” inizia nel novembre 1981 e si svolge senza il principale imputato: Ermanno Buzzi è assassinato il 13 aprile dello stesso anno nel supercarcere di Novara da Pierluigi Concutelli, comandante militare del Movimento politico Ordine nuovo, e Mario Tuti, capo del Fronte nazionale rivoluzionario. Con la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Brescia del 2 marzo 1982, dell’impianto accusatorio della prima istruttoria non resta in piedi nulla. Tutti gli imputati sono assolti per non aver commesso il fatto, Buzzi è definito “un cadavere da assolvere”. La Corte, inoltre, stigmatizza con durezza ancora maggiore dei primi giudici gli eccessi in materia di carcerazione preventiva e nella conduzione degli interrogatori, “comportamenti che, pur non ponendosi in contrasto con la espressa normativa processuale, di fatto realizzano una situazione di pericolo obiettivo per l’accertamento della verità; e sono i più insidiosi perché l’imputato non dispone di rimedi per difendersi”. La morte di Silvio Ferrari da omicidio colposo è derubricata a mero “infortunio sul lavoro” (stava trasportando una bomba per un attentato), imputabile a imperizia e negligenza del defunto, nel cui sangue, del resto, era stato riscontrato un tasso alcolemico più che sufficiente a determinare uno stato di ebbrezza.
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Con la sentenza n. 1607 del 30 novembre1983, tuttavia, la Corte di Cassazione, in accoglimento del ricorso del Procuratore Generale di Brescia, annulla la sentenza d’appello per difetto di motivazione (sotto il profilo del travisamento dei fatti e dell’intrinseca contraddittorietà), con rinvio degli atti alla Corte d’Assise d’appello di Venezia, nei confronti di Nando Ferrari, Angelino e Raffaele Papa e Marco De Amici per il reato di strage.
Il giudizio di appello in sede di rinvio presso la Corte di Assise d’Appello di Venezia si conclude con la sentenza del 19 aprile 1985 che, pur assolvendo gli imputati (per insufficienza di prove Angelino Papa, Nando Ferrari e Marco De Amici, con formula piena Raffaele Papa), si contrappone nettamente a quella della Corte d’Assise d’Appello bresciana (e a quella del giudice istruttore Besson che l’aveva preceduta), riabilitando in larga misura l’originaria impostazione accusatoria. Anche contro
la seconda sentenza d’appello vengono proposti ricorsi per Cassazione, ma questa volta la Suprema Corte non ravvisa vizi di alcun genere nella decisione impugnata. La sentenza d’appello veneziana passa, quindi, in giudicato, con la sentenza della Corte di Cassazione del 25 settembre 1987, prima sezione penale, presieduta da Corrado Carnevale.
All’esito della vicenda, i ruoli si invertono: gli accusati diventano accusatori e viceversa. Prende avvio a Milano un procedimento per calunnia a carico del giudice istruttore, Domenico Vino, del pubblico ministero, Francesco Trovato, di Angelino Papa, Ugo Bonati e altri, ma il Tribunale di Milano, con sentenza del 2 luglio 1990, assolve tutti gli imputati con formula piena “perché il fatto non sussiste” (riabilitando gli inquirenti e il loro operato).
Il 23 marzo 1984 l’ufficio istruzione del tribunale di Brescia, su richiesta del pubblico ministero Michele Besson, apre la terza istruttoria a seguito di una serie di rivelazioni di esponenti della destra carceraria (Angelo Izzo, Sergio Calore, Sergio Latini), che avevano imboccato la strada della collaborazione con l’autorità giudiziaria (nella specie, con il dottor Pierluigi Vigna della Procura della Repubblica di Firenze, da tempo impegnato in un’indagine su attentati ferroviari verificatisi lungo la linea Bologna-Firenze negli anni 1974-1983). Inizialmente l’incarico è affidato a un pool di tre magistrati, ma sarà poi in effetti svolto e portato a compimento dal dottor Gianpaolo Zorzi. Imputati per concorso in strage (d’ora in poi ex art. 285 c.p.) sono Cesare Ferri (già indagato nel 1974, all’epoca era stato prosciolto), il suo amico Alessandro Stepanoff, Giancarlo Rognoni (leader del gruppo ordinovista milanese “La Fenice”, con filiale a Brescia denominata “Riscossa”, facente capo a Marcello Mainardi) e Marco Ballan (leader di Avanguardia Nazionale a Milano). L’apporto di nuovi collaboratori di giustizia porta sul banco degli imputati per concorso in strage anche Fabrizio Zani, Marilisa Macchi e Luciano Benardelli. Agli inizi del 1986, l’incombente scadenza del termine di custodia cautelare di Ferri (già prorogato dal Tribunale su richiesta del giudice istruttore) impone di scindere le posizioni processuali. Si giunge così, il 23 marzo 1986, al rinvio a giudizio di Cesare Ferri e di Alessandro Stepanoff per concorso in strage, nonché dello stesso Ferri e di Sergio Latini per concorso (morale) nell’omicidio di Ermanno Buzzi. Le altre posizioni (non ancora compiutamente istruite) vengono stralciate e confluiscono in nuovo fascicolo processuale (n. 181/86-A).
Il dibattimento del cosiddetto “processo Ferri” (n. 218/84) si conclude in primo grado con lasentenza del 23 maggio 1987 che assolve Ferri e Stepanoff per insufficienza di prove. Il giudizio di secondo grado si conclude con la sentenza della Corte d’assise d’appello di Brescia del 10 marzo 1989 che assolve gli imputati con formula piena per non aver commesso il fatto. In data 13 novembre 1989, la prima sezione penale della Corte di Cassazione, ancora presieduta dal giudice Corrado Carnevale, liquida la strage di Brescia (esaminata insieme ad altre sei nella stessa udienza) con una pronuncia di inammissibilità del ricorso del Procuratore Generale di Brescia per manifesta infondatezza, formulando nei confronti della sentenza di assoluzione (impugnata su richiesta del pubblico ministero Michele Besson) una valutazione di perfetta “aderenza alle risultanze processuali e a tutti gli elementi emersi” – peraltro non noti nella loro totalità alla Suprema Corte, visto che ben 52 faldoni di atti non si sono mossi da Brescia. Tutti assolti, dunque. Ma la motivazione della sentenza di primo grado offre una ricostruzione accurata dell’ambiente della destra radicale milanese negli anni Settanta: il milieu in cui si ritiene possano essere stati arruolati gli esecutori materiali della strage bresciana, sebbene non ci siano elementi sufficienti a provare responsabilità individuali.
Nel frattempo, a partire dal 23 marzo 1986, le posizioni stralciate nel fascicolo n. 181/86-A sono oggetto della quarta istruttoria, condotta ancora da Giampaolo Zorzi. Si conclude con la sentenza- ordinanza del 23 maggio 1993, che proscioglie dall’accusa di strage per non aver commesso il fatto (come richiesto dallo stesso pubblico ministero dottor Francesco Piantoni, subentrato al dottor Besson) Fabrizio Zani, Giancarlo Rognoni, Marco Ballan, Marilisa Macchi e Luciano Benardelli. Il giudice istruttore dispone lo stralcio del filone d’indagine relativo alla testimonianza resa da Maurizio Tramonte, di recente identificato con la fonte Tritone del Sid, nel marzo del 1993. La sentenza del giudice Zorzi, però, consegna agli atti la precisa ricostruzione dell’incredibile serie di intralci che sono stati opposti alla sua indagine, anche in sede istituzionale (dal Sismi e da persone non individuate presso l’Ambasciata italiana in Argentina).
Il 24 maggio dello stesso anno prende l’avvio la quinta istruttoria (in realtà ora, secondo il nuovo codice di procedura penale entrato in vigore nel 1989, si chiama “indagine preliminare”), affidata ai pubblici ministeri Francesco Piantoni e Roberto Di Martino. L’indagine acquisisce i rilevanti contributi probatori forniti dai “pentiti” Carlo Digilio, Martino Siciliano (i due sono al centro della nuova istruttoria per la strage di piazza Fontana che si sta svolgendo presso il Tribunale di Milano negli stessi anni) e Maurizio Tramonte (quest’ultimo sbloccatosi dall’iniziale reticenza), e imbocca decisamente la strada che porta a imputare per concorso in strage, insieme a Tramonte, i vertici di Ordine nuovo nel Triveneto, Carlo Maria Maggi e Delfo Zorzi. Per loro, il 3 aprile 2007 la Procura della Repubblica bresciana presenta richiesta di rinvio a giudizio per concorso in strage; l’imputazione colpisce anche Pino Rauti, Francesco Delfino, l’investigatore della prima istruttoria, allora capitano (divenuto generale) dei Carabinieri, e un suo infiltrato, Gianni Maifredi, mentre Gaetano Pecorella, Fausto Maniaci e Martino Siciliano sono imputati per il favoreggiamento di Delfo Zorzi, accusato di aver comprato, con la complicità dei due legali, il silenzio del collaboratore Martino Siciliano (il 14 febbraio 2008 gli atti relativi a questo segmento dell’inchiesta sono trasferiti per incompetenza territoriale da Brescia a Milano, dove l’inchiesta è archiviata). A conclusione dell’udienza preliminare, il decreto del G.U.P. del 15 maggio 2008 dispone il rinvio a giudizio di Zorzi, Maggi, Tramonte, Rauti, Delfino e Maifredi (quest’ultimo muore prima che si arrivi al giudizio).
Il dibattimento del processo agli ordinovisti per la strage si apre il 22 gennaio 2009; è accolta la costituzione di parte civile dei familiari delle vittime, di alcuni feriti, del Comune di Brescia, della Presidenza del Consiglio dei Ministri, dei sindacati confederali Cgil, Cisl, Uil. Si conclude in primo grado con la sentenza del 16 novembre 2010, che manda assolti tutti gli imputati. Stesso esito in secondo grado, con la sentenza della Corte d’assise d’appello di Brescia del 14 aprile 2012. Tuttavia, l’undicesimo grado di giudizio, pronunciato dalla Quinta sezione della Corte di Cassazione, con sentenza del 21 febbraio 2014, annulla le assoluzioni di due imputati – il leader ordinovista Carlo Maria Maggi e il suo sottoposto, nonché informatore del Sid, Maurizio Tramonte – perché la valutazione parcellizzata e disorganica del cumulo di indizi a carico dei due imputati fa ritenere illogico l’esito assolutorio del processo a loro carico. Confermata l’assoluzione di Delfo Zorzi e Francesco Delfino, che escono definitivamente dal processo. Quanto a quest’ultimo, però, entrambe le Corti esprimono giudizi molto duri sul modo in cui condusse le indagini nella prima istruttoria: in primo grado, sono stigmatizzati i “metodi non ortodossi” da lui impiegati nella prima inchiesta, in appello si attribuisce all’investigatore una condotta “estrinsecata in plurimi atti abusivi (e non semplicemente eccedenti quelli ortodossi)”.
Il giudizio di rinvio presso la Corte d’Assise d’Appello di Milano, dopo un breve rinnovamento dell’istruttoria dibattimentale, si conclude con la sentenza del 22 luglio 2015: il leader di Ordine nuovo nel Triveneto Carlo Maria Maggi (il quale dichiarò, poco dopo la strage di piazza Loggia, “Brescia non deve restare un fatto isolato”) e il suo sodale (all’epoca collaboratore dei servizi segreti) Maurizio Tramonte, sono condannati per strage. La sentenza ha un grande valore storico: la condanna di una figura apicale di Ordine Nuovo conferma le pesanti responsabilità dell’organizzazione nella strategia della tensione; confermato anche, attraverso Tramonte, il coinvolgimento ambiguo e depistante dei servizi segreti dell’epoca. Decisamente rivalutata, inoltre, la gravità del suo ruolo: le motivazioni redatte dal giudice Anna Conforti, infatti, precisano come risulti dimostrata la sua presenza in piazza la mattina del 28 maggio.
Le condanne a Maggi e Tramonte sono state confermate in Cassazione con sentenza del 20 giugno 2017.
Giancarlo Feliziani, Lo schiocco. Storia della strage di Brescia, Limina, Brescia 2006.
Mimmo Franzinelli, La sottile linea nera. Neofascismo e servizi segreti da piazza Fontana a piazza della Loggia, Rizzoli, Milano 2008.
Benedetta Tobagi, Una stella incoronata di buio. Storia di una strage impunita, Einaudi, Torino 2013.
POST SCRIPTUM: Carlo Maria Maggi è deceduto agli arresti domiciliari lo scorso dicembre 2018 a 82 anni; da sempre in precarie condizioni di salute, non è mai stato in carcere.
«Cari ragazzi, mi scuso innanzitutto per non essere fisicamente presente come avrei voluto a questo incontro, ma l’anagrafe me lo impedisce. Voglio comunque ringraziare tutti coloro che hanno reso possibile questa iniziativa, ma voglio ringraziare soprattutto voi che avrete la pazienza di ascoltare o leggere la storia della mia vita. Se ho ripercorso il passato l’ho fatto proprio nella speranza che conoscere la mia esperienza potesse aiutare voi giovani a comprendere un passato non troppo remoto e quindi ad orientarvi meglio in questo presente non facile e non molto chiaro. Quello che mi premeva dirvi con i miei ricordi erano principalmente due cose. La prima è già nel titolo: alla macchia sempre non vuole essere l’esaltazione di una ribellione fine a se stessa, ma l’affermazione di un principio che dovrebbe guidarci non solo nei momenti cruciali della vostra vita, ma sempre e comunque: essere autonomi nelle scelte, non seguire passivamente la corrente, vivere con coerenza i propri valori anche se ciò significa pagare un prezzo anche alto. La seconda cosa riguarda la politica. Oggi è diventato uno sport nazionale vituperare la politica e i politici. Non siate acquiescenti a questo andazzo; impariamo dai padri fondatori della democrazia che la politica è l’attività più nobile dell’uomo; se la viviamo come impegno per la realizzazione di ideali in cui crediamo fermamente, la vita sarà ricca e piena come lo è stata la mia. Grazie della vostra attenzione, cari ragazzi, buon lavoro e auguri per il futuro che saprete costruirvi con la buona politica».
Vittorio Meoni, Lettera agli studenti delle Scuole Superiori di Colle Val’d’Elsa, 2017
Basato su materiale interamente inedito, il film di André Singer raccoglie le prime testimonianze visive degli orrori filmati dai cineoperatori all’interno dei campi di concentramento all’indomani della loro liberazione.
Si tratta di immagini girate dalle forze inglesi, russe e americane, che l’allora Ministro delle Comunicazioni britannico e successivamente fondatore della Granada Television, Sydney Bernstein, incaricò di riunire, assieme a numerose interviste ai sopravvissuti allo sterminio, in un documentario che testimoniasse, in modo inequivoco e una volta per tutte, l’indicibile vastità dei crimini perpetrati dal regime nazista ai danni delle comunità ebraiche e di tutta l’umanità. Furono allora chiamati a partecipare grossi nomi dell’Intellighenzia britannica, tra i quali il cineasta Alfred Hitchcock.
BERLINO – Il 15 gennaio del 1919 veniva uccisa Rosa Luxemburg
di Franco Astengo, tratto da Ilpaesedelledonne online
Fra il 15 e il 16 gennaio 1919 i corpi speciali del ministro dell’Interno tedesco, il socialdemocratico Noske, repressero nel sangue la rivolta spartachista di Berlino e assassinarono i due principali esponenti del Partito Comunista Tedesco: Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg.
i funerali di Rosa Luxemburg
A novantanove anni di distanza da quel tragico episodio, che segnò un punto fondamentale nella storia del movimento operaio occidentale, il pensiero di Rosa Luxemburg – al quale dedichiamo questo intervento sicuramente incompleto – rimane uno dei punti di studio fondamentali per comprendere il pensiero “critico” del comunismo dell’epoca delle rivoluzioni e dei grandi partiti di massa.
Si trattò di un vero e proprio “momento di rottura”.
Rosa Luxemburg prese politicamente coscienza all’interno della socialdemocrazia tedesca, ma presto si pose in una posizione critica con quel “revisionismo”, che è stato storicamente proiettato sulla figura di Bernstein. In quel momento Rosa Luxemburg si collocò in una posizione comune con Kautsky, al riguardo del quale però condivideva solo formalmente la concezione della dialettica tra riforme e rivoluzione.
Dall’analisi dell’esito della rivoluzione russa del 1905 Rosa Luxemburg trasse più ampie conseguenze per la ridefinizione del processo rivoluzionario nell’Europa Occidentale. Ma la svolta maggiormente decisiva nel rapporto fra Rosa Luxemburg e la socialdemocrazia tedesca (cui essa guardava comunque, come del resto lo stesso Lenin, con ammirazione in quanto forza teorico-organizzativa di fondamentale importanza per il proletariato internazionale) fu determinata dalla posizione assunta dell’SPD nel decisivo frangente dello scoppio della prima guerra mondiale, con la pronta conversione del partito – nonostante tutte le dichiarazioni d’impegno contro la guerra fatte sul piano internazionale – a una politica imperialistica di tregua parlamentare. Rosa Luxemburg espresse, con grande amarezza, tutta la propria disillusione allorquando la maggioranza del gruppo parlamentare votò il 4 agosto 1914 la concessione dei crediti di guerra al governo del Kaiser.
E’ la guerra che dimostra il fallimento della socialdemocrazia su un punto di principio sino ad allora considerato inviolabile: l’internazionalismo proletario. Forse proprio in quel momento apparve finalmente chiaro a Rosa Luxemburg che quel partito – tanto rapidamente sottrattosi ai propri solenni impegni nei confronti della classe operaia degli altri Paesi e integratosi in quel sistema imperialistico di relazioni interstatali, sino all’ultimo combattuto al prezzo di numerose vittime – non sarà in grado di condurre all’interno della propria società una lotta conseguente per la trasformazione rivoluzionaria. Chi è venuto meno agli impegni internazionali ha insieme perduto l’intima forza per far fronte agli impegni nazionali.
A quel punto l’attività politica di Rosa Luxemburg si concentrò nell’opposizione alla guerra, poiché riteneva che qualunque esito militare si verificasse essa rappresentava comunque la maggiore sconfitta concepibile per il proletariato europeo. Muovendo da queste considerazioni Rosa Luxemburg si adoperò allora per sviluppare alternative organizzative alla socialdemocrazia, venuta meno ai suoi compiti essenziali. Si dovevano dunque riunire e mobilitare tutte le forze in grado di spezzare l’accecamento nazionalistico della pretesa guerra difensiva e trasformarla in una guerra di classe.
Rosa Luxemburg era ben consapevole che, con la fine della guerra, una crisi nazionale globale avrebbe sconvolto le istituzioni politiche e l’egemonia borghese, cosicché, al momento decisivo, sarebbe stato di fondamentale importanza contrapporre alla corrotta socialdemocrazia un’alternativa organizzativa per la presa del potere.
Più d’ogni altro, Rosa Luxemburg è apparsa cosciente della violenta frattura storica rappresentata dalla prima guerra mondiale. Essa considerava la rivoluzione non come una concezione meramente programmatica nell’interesse dell’emancipazione di una singola classe, ma come necessità esistenziale per l’autoconservazione dell’umanità.
Il termine Menschheit (Umanità) sempre ricorrente nei suoi discorsi non rappresentava una pura metafora ma l’essenza di ciò che le appariva storicamente inalienabile e cercò di dimostrarlo anche nel testo del discorso pronunciato al congresso di fondazione del KPD nel dicembre del 1918.
Nella “rivoluzione tedesca” del novembre 1918 le apparve evidente che nulla di decisivo era stato modificato nei rapporti di classe esistenti. I rappresentanti di quella “rivoluzione” erano così intimamente compromessi con il corrotto sistema dominante e con le sopravvissute forze politico-militari che la strada del parlamentarismo, imboccata dall’Assemblea nazionale, doveva necessariamente condurre alla conservazione di quello status quo da cui i vecchi poteri sarebbero usciti alla fine vittoriosi. Ben presto Rosa Luxemburg comprese che il governo Ebert-Scheidemann sarebbe stato in grado di agire solo finché alla classe dominante fosse occorsa una pausa per rigenerarsi completamente.
Risoluta fautrice di una democrazia di base che avesse nei consigli degli operai e dei soldati il fondamento essenziale della sua forma politico-organizzativa Rosa Luxemburg ha combattuto sin dal principio contro ogni forma di mero socialismo di governo. In questo punto cruciale si delinea un altro elemento di frattura e cioè quello relativo a uno specifico rapporto con la rivoluzione d’Ottobre, che può essere definito come di “solidarietà critica”. Rosa Luxemburg non si lasciò condizionare dall’esigenza di dimostrare a ogni costo la propria solidarietà alla rivoluzione d’Ottobre. Prima di tanti altri, essa aveva individuato nella concezione leniniana del partito e in altri punti ancora taluni tratti che preannunciavano le possibili involuzioni della società sovietica e che minacciavano gli elementi fondativi di una democrazia socialista. Da questo elemento prese le mosse la sua ricerca insieme di rottura con la socialdemocrazia e di modello diverso da quello bolscevico. Non è semplice collocare teoricamente questo tipo di ricerca.
Rosa Luxemburg è stata certamente una fautrice della democrazia consiliare: con un’idea del tutto diversa dell’organizzazione da quella, ad esempio, espressa da Anton Pannekoek. La sua concezione della dialettica materialista, completamente determinata da processi storici, non presentò mai aspetti di mentalità naturalistica.
E indicò con grande chiarezza l’alternativa sempre presente in ogni congiuntura storica: socialismo o barbarie.
Proprio questa capacità di presentare, sempre e comunque, di indicare quell’alternativa, rivolta alla vivificazione della dialettica, rese il pensiero di Rosa Luxemburg una forma di eresia particolare nella storia del movimento operaio. Il rapporto con le masse rappresentò un elemento essenziale nella sua teoria politica e proprio questo elemento le impedì di poter accettare il rigido partito di quadri, chiuso in una ferrea disciplina cospirativa, come alternativa al partito socialdemocratico, divenuto intanto una mera unione elettorale.
In Rosa Luxemburg però non si rintraccia un’alternativa astratta fra spontaneità e organizzazione: tutto dipende dalle mediazioni storiche concrete. A dimostrazione di ciò sta il suo concetto specifico di organizzazione. L’organizzazione deve intervenire strutturando e, in un certo senso, anticipando e illustrando, attraverso le esperienze e le forme di lotta dei proletari, i loro momenti rivoluzionari nella prospettiva dell’obiettivo finale. Nella sua concezione dell’organizzazione della lotta di classe,intuì che spontaneità e organizzazione non stanno fra loro in un rapporto esteriore, bensì contengono una loro dialettica immanente. Se si cerca di isolare da una parte la spontaneità e dall’altra l’organizzazione o di stabilire fra esse una piatta identità esse possono trasformarsi, nel loro movimento storico, nell’esatto contrario. Se l’organizzazione proletaria si stacca dalle masse quasi necessariamente dà adito ad azioni spontanee che possono rivolgersi anche contro di essa; se la spontaneità si stacca dalla forza organizzativa della classe operaia, ricade nel feticismo organizzativo di gruppi settari o nel meccanicismo degli atteggiamenti di protesta, che divampano e subito si spengono, di gruppi che non sono disposti e capaci di accollarsi gli sforzi di un lavoro teorico di lunga durata, né gli sforzi di un lavoro pratico-organizzativo.
1959: Che Guevara e Camilo Cienfuegos entrano a L’Avana
PRIMO GENNAIO 1959, LA ‘REVOLUCION’ HA VINTO
di ALBERTO FLORES D’ ARCAIS (La Repubblica, 31 dicembre 1988)
LA NOTTE di Capodanno di trent’ anni fa, il dittatore cubano Fulgencio Batista y Zaldivar stava attendendo con ansia le ultime notizie dal fronte militare. Da due anni il suo esercito non raccoglieva che sconfitte nelle campagne e nei monti dell’ isola dei Caraibi e nelle prime ore del pomeriggio di quel 31 dicembre 1958 tutto era diventato più chiaro. Dopo una battaglia durata quasi quattro giorni, la colonna di ribelli guidata da Ernesto Che Guevara aveva infatti conquistato la città di Santa Clara, l’ ultimo bastione nella disperata difesa dell’ esercito governativo ormai in completo sfacelo. Le speranze del dittatore erano legate ad un improbabile miracolo, ma le notizie che gli portarono i suoi collaboratori non potevano essere peggiori. Le due colonne di barbudos guidate da Camilo Cienfuegos e dal Che erano ormai alle porte della capitale, anche l’ Avana sarebbe presto caduta.
Batista prese una rapida decisione. Convocò il colonnello Ramon Barquin, un ufficiale che aveva complottato contro di lui, che era stato incarcerato e poi rilasciato, e gli lasciò la guida del governo. Era la sua ultima carta da giocare in alternativa a Castro. Quando cominciava ad albeggiare, l’ ex sergente-stenografo dell’ esercito, il mulatto, figlio di un oscuro bracciante di canna da zucchero, che si era trasformato in un feroce dittatore, si fece portare all’ aeroporto dove era in attesa l’ aereo che lo avrebbe portato in salvo nella vicina Miami, in Florida. In quelle stesse ore, a circa novecento chilometri di distanza, nella sede del suo quartier generale situato in una fattoria nei pressi di Santiago, Fidel Castro Ruz stava scrivendo l’ appello con cui avrebbe chiamato i cubani allo sciopero generale. La vittoria del Che a Santa Clara e un colloquio con Camilo Cienfuegos lo avevano convinto che la lunga lotta armata, iniziata con una dozzina di compagni sui monti della Sierra Maestra, era giunta al termine. Mentre in tutto il mondo si festeggiava con brindisi e feste l’ arrivo dell’ anno nuovo, la rivoluzione cubana celebrava il suo trionfo. Uniformi abbandonate Il colonnello Barquin non ebbe il tempo di prendere alcuna decisione. Le forze ribelli, spalleggiate da gente di ogni ceto, borghesi, operai, diseredati, avevano conquistato ormai tutti i punti decisivi nello scacchiere militare dell’ Avana. Tra il primo e il due gennaio l’ intera capitale era nelle mani dei fidelisti, mentre i soldati di Batista tentavano la fuga, dopo aver abbandonato le uniformi, per confondersi con la gente comune e sfuggire così alla vendetta dei vincitori. Fidel attese ancora qualche giorno. Poi tra migliaia di persone in festa, mentre gli improvvisati tribunali rivoluzionari emettevano le prime condanne a morte, l’ otto gennaio fece il suo ingresso trionfale all’ Avana. La rivoluzione aveva vinto.
La lunga lotta di Castro e dei suoi contro la dittatura di Batista era iniziata molti anni prima. La data simbolica, quella da cui aveva preso il nome il movimento dei barbudos, è il 25 luglio 1953. Quel giorno, alla testa di circa centocinquanta uomini armati di semplici fucili, Fidel aveva dato l’ assalto alla caserma Moncada, nei pressi di Santiago, la più importante fortezza militare della provincia orientale dell’ isola caraibica. L’ assalto finì in un fallimento. I morti furono una quarantina, i sopravvissuti vennero arrestati tutti nel giro di una settimana. Cinquanta di loro vennero processati, gli altri, meno fortunati, furono torturati a morte. Tra coloro che si salvarono c’ erano Fidel e suo fratello Raul. In tribunale Castro non volle avvocati. Si difese da solo, dichiarandosi colpevole delle accuse mossegli dal regime: Condannatemi pure, la storia mi assolverà. La sua arringa contro la dittatura divenne ben presto uno dei testi sacri della piccola rivoluzione tropicale che si avviava a cambiare la storia dell’ America Latina. Grazie anche alla mediazione e alle pressioni del vescovo di Santiago, Fidel Castro riuscì ad evitare la condanna a morte, ma non 15 anni di reclusione. Ne scontò solo due.
Per una di quelle circostanze che a volte possono cambiare il corso della storia, venne liberato in virtù di una delle amnistie generali fatte da Batista per attenuare, di fronte al mondo e soprattutto agli Stati Uniti, le nefandezze della sua dittatura. Castro non resta a Cuba. Esiliato in Messico non rinuncia però alla lotta contro il regime. Ed è proprio in Messico, alla fine del 1955, che incontra l’ uomo che diventerà l’ altro grande protagonista della rivoluzione cubana: E’ un medico argentino, Ernesto Guevara. Da quel giorno tra i due il sodalizio politico e l’ amicizia diventerà una sola cosa. Fino all’ entrata trionfale all’ Avana nulla di grave turberà i loro rapporti. Sarà solo più tardi, di fronte alle difficili scelte rivoluzionarie, che qualcosa si incrinerà. Guevara, ormai conosciuto in tutto il mondo come il Che, lascerà l’ isola per andare a cullare il suo sogno fochista in Bolivia, dove nell’ ottobre del 1967 troverà la morte.
Alla fine del 1956 la vita in Messico diventa troppo rischiosa per i rivoluzionari cubani. Castro, suo fratello Raul, Guevara, ed altri ottanta ribelli, salpano dalle coste messicane a bordo del panfilo Granma. Dopo giorni di difficile navigazione sbarcano finalmente sul suolo cubano. Li attende una brutta sorpresa che si trasformerà in un’ altra bruciante sconfitta. Attaccati da un reggimento governativo vengono decimati. Riescono a salvarsi solo in dodici che fuggono sui monti della Sierra Maestra. E’ lì che Fidel inizia quella che sembra una follia: La lotta armata contro il regime di Batista. Castro trova un terreno fertile tra i contadini, recluta uomini, comincia con piccoli colpi di mano che diventano via via sempre più audaci. Ruba armi, attacca piccole pattuglie, poi caserme, conquista mitragliatrici e armi pesanti. L’ elemento sorpresa Le fila dei barbudos chiamati così perché Castro promette che non si taglierà la barba fino alla vittoria (promessa non mantenuta) si ingrossano e inizia una lunga guerra di logoramento. Dalle imboscate si passa a vere e proprie battaglie. Castro punta sempre sull’ elemento sorpresa, i fatti danno ragione alla sua tattica. I barbudos sono attivissimi nella propaganda non meno che nella lotta armata. Batista tenta di replicare con le stesse armi ma commette un errore imperdonabile. Annuncia trionfalmente che Castro è stato ucciso e che l’ esercito ribelle è stato distrutto. A smentirlo ci pensa uno dei grandi reporter del New York Times, Herbert Matthews, che riesce a raggiungere la Sierra e ad intervistare Castro. Gli articoli di Matthews, che non nasconde la sua simpatia per il leader ribelle, in quegli anni ancora lontano dall’ ideologia comunista, fanno diventare Fidel popolare negli Stati Uniti e la lotta dei barbudos conosciuta in tutto il mondo. Fanno soprattutto sapere ai cubani che Castro è vivo e che il suo esercito è più forte di prima. Da quel momento, per due anni, i ribelli conquistano palmo dopo palmo il territorio di tutta l’ isola. Fidel mette a segno due colpi propagandistici che gli daranno l’ onore delle prime pagine sui giornali di tutto il mondo. Il rapimento di Manuel Fangio, il popolare pilota campione del mondo di formula 1, e il sequestro di 47 militari americani in libera uscita dalla base Usa di Guantanamo. Sia Fangio che i soldati statunitensi verranno liberati. Alla fine del 1958 la dittatura di Batista è sempre più debole. Tutte le campagne sono ormai territorio libero nelle mani di Fidel e dei suoi. Il dittatore tenta la carta delle elezioni. I votanti sono pochi, i brogli molti, nessuno crede veramente alla conversione democratica dell’ ex sergente. Gli ultimi mesi vedono nuovi successi dei ribelli e la repressione sempre più feroce di dissenso da parte della polizia di Batista. Ma ormai il destino del dittatore è segnato. Perché si compia basterà attendere la notte di quel Capodanno di trent’ anni fa.
QUESTE LE DATE STORICHE
26 Luglio 1953 Assalto alla caserma Moncada. Fidel Castro e i suoi vengono arrestati.
1955 Castro viene liberato grazie a un’ amnistia generale. Si rifugia in Messico dove conosce Ernesto Guevara.
Dicembre 1956 Partito insieme ad altri 28 uomini dal Messico a bordo del Granma, Castro sbarca a Cuba e si rifugia nella Sierra Maestra.
Agosto 1958 Inizia l’ attacco finale delle tre colonne di barbudos guidate da Fidel, Guevara e Cienfuegos.
Dicembre 1958 I ribelli sono alle porte dell’ Avana. Tra il 27 e il 31 dicembre Guevara conquista la città di Santa Clara, ultima difesa prima della capitale.
1-2 Gennaio 1959 Batista fugge da Cuba. Le colonne di Cienfuegos e Guevara entrano all’ Avana occupando i punti chiave della città.
15 Aprile 1961 Ribelli anticastristi appoggiati dagli Stati Uniti sbarcano a Baia dei Porci ma vengono sconfitti dopo una violenta battaglia.
22 Ottobre 1962 Il presidente americano John Fitzgerald Kennedy ordina il blocco navale intorno a Cuba.
7 Ottobre 1967 In Bolivia viene ucciso Ernesto Che Guevara 1970 Fallisce la grande zafra, la raccolta di dieci milioni di tonnellate di canna da zucchero.
1975 Con l’ operazione Carlotta ha inizio l’ intervento militare cubano in Angola. Dicembre 1975 Primo congresso del partito comunista.
1980 Dal porto di Mariel 127 mila cubani abbandonano l’ isola per raggiungere la Florida.
1983 Gli Stati Uniti invadono Grenada.
Le rivoluzioni hanno avuto il suo volto
(di Osvaldo Soriano)
Le sue parole d’ordine si andarono a stampare sui muri di Parigi, Londra, di Bologna, ma soprattutto penetrarono le coscienze di quei giovani che erano convinti di poter cambiare un mondo ingiusto e noioso, logorato dalla crescita economica del dopoguerra.
La rivoluzione aveva il volto del Che, leggeva Sartre e Fanón, ascoltava i Beatles. In America latina preferiva i racconti di Julio Cortázar e Gabriel Garcia Márquez e la musica di Alfredo Zitarrosa e Daniel Viglietti, di Chico Buarque e Silvio Rodríguez. Il soffocamento della rivolta in Francia non impedì che il suo spirito libertario arrivasse fino ai colonnelli portoghesi e ai sergenti africani.
In America erano in armi i «montoneros» argentini, i «tupamaros» uruguayani, i trotzkisti peruviani, i marxisti colombiani e salvadoregni, i sandinisti nicaraguensi, e in ogni parte sorgeva un «foco» di nuova insurrezione. La Dottrina della sicurezza nazionale, insegnata dai nordamericani nella Scuola di guerra del canale di Panama, preparava i militari di tutto il continente alla repressione.
In Bolivia, dove era caduto il Che, il generale Juan José Torres instaurò un governo socializzante che ebbe i suoi fugaci soviet di soldati e minatori prima di cadere abbattuto dalla borghesia e dai contadini. In Brasile, la dittatura militare avviata nel ’64 smembrò la guerriglia urbana e impose un ordine di crescita economica ferrea e rapida. In Perù ci fu un serio tentativo nazionalista guidato dal generale Velazco Alvarado, che poi fu tradito e deposto. In Cile, dove c’era una tradizione democratica, il socialista Salvator Allende giunse al governo con l’appoggio di comunisti e cattolici di sinistra. In Uruguay crebbe la guerriglia «tupamara» e si formò il «Fronte amplio», una coalizione di sinistra legale che arrivò a minacciare l’egemonia dei partiti tradizionali. In Argentina, dove la confusione era maggiore, il generale Juan Perón tornò al potere nel 73 dopo diciotto anni di esilio, grazie all’offensiva guerrigliera dei «montoneros» nazionalisti e dei marxisti dell’«Ejercito revolucionario del pueblo». La stabilità delle presunte democrazie vacillò in Venezuela e Colombia e l’Ecuador divenne ingovernabile. A Panama prese il potere un colonnello nazionalista e avventuriero che affascinò Graham Green: Omar Torrijos.
Cuba 1959
Fu uno dei decenni più turbolenti del continente. Bruscamente apparirono dal fondo dei tempi i fantasmi dei padri fondatori: Bolívar, San Martí, Artigas, José Marti, questa volta inalberati dai giovani che li avevano patiti nei libri di scuola del sistema educativo dominante. Gli eroi dell’indipendenza avevano altre voci, ora: erano divenuti più umani e parlavano dei poveri e degli indios; erano loro i precursori della «Gran Patria Americana».
D’improvviso i ragazzi di questa parte del mondo si sentivano orgogliosi di essere di qui e erano pronti a morire per essere liberi. Tutto il mondo progressista li guardava con ammirazione e perfino con invidia, e se perdevano qualche battaglia le porte dell’Europa erano aperte per accoglierli e per starli a sentire.
A metà degli anni Settanta si cominciarono a avvertire gli echi in Germania federale, Italia, Spagna e un’altra volta in Francia. Questi echi suonavano come scoppi. Cadde il regime di Salazar e la borghesia portoghese tremò con la «Rivoluzione dei garofani». L’Europa, così sicura di sé, si lasciò tentare fino a che arrivò la gran depressione economica del 73.
Allora si ebbe il crollo delle illusioni, la fine di un’epoca in cui tutti i sogni erano stati possibili. Il Che andava a morire di nuovo e quella morte sarebbe stata più duratura. (…) Lui alzò le bandiere dell’utopia e nei suoi testi, come nel suo diario, appare una visione forse ingenua del mondo.
Però lui ci credeva, e fece sì che anche molti altri ci credessero. C’era qualcosa di religioso in questo, qualcosa di molto discutibile, ma tutte le grandi rivoluzioni hanno avuto i loro uomini pragmatici e quelli disposti a dare la vita per i loro principi. Probabilmente è vero che l’esempio del Che ha trascinato molti giovani a una morte inevitabile, ma altri, come i sandinisti, sono arrivati alla rivolta quando ormai nessuno più credeva nella lotta armata.
È per questo che nelle società più disperate il Che conserverà sempre tutto il suo valore. A tanti anni dalla sua morte in molti lo hanno abbandonato altri seguono i suoi passi, là dove libertà è una parola senza significato. Molta gente racconta che, in fondo, il Che era di un grande candore.
Quest’uomo credeva ciecamente nell’onestà, nella giustizia e nella capacità dei popoli latinoamericani di capire qual è il loro destino.
Col tempo questo sentimento quasi cristiano dell’uguaglianza può far sorridere. Pare di favola quel personaggio che divideva una caramella fra quattro compagni perché nessuno ne avesse più dell’altro. E tuttavia non era un angelo: quelli che erano presenti ai processi successivi alla rivoluzione cubana, nel ’59, lo ricordano seduto a un tavolo mentre giudicava torturatori e spie che finivano al muro con la sua parola.
A Cuba il Che era uno dei tre comandanti di maggior prestigio insieme con Castro e Camilo Cienfuegos. Fino a che nel ’65, bruscamente, uscì dalla scena politica. Molti credettero che si trattasse di un regolamento di conti fra i capi della rivoluzione. Quando il suo nome cominciò a passare di bocca in bocca in Bolivia, ci fu chi pensò a un emulo demente. Solo nell’ultimo anno della sua vita si ebbero testimonianze indubitabili che il Che era a capo di una nuova rivoluzione.
Bolivia 1967
Si sono scritte migliaia di pagine sugli errori commessi dai guerriglieri in Bolivia e nel diario dello stesso Guevara ci sono prove dell’infinita solitudine in cui lo lasciarono i contadini dell’altipiano, una delle regioni più desolate del continente.
Quando le truppe regolari lo presero, quasi per caso, morte di paura, è possibile che il Che, indebolito dalla fame e dall’asma, abbia intuito che la sua epopea era giunta alla fine.
Non immaginava quel che sarebbe cominciato con la sua morte, ma è certo che oggi non rinnegherebbe nulla della sua vita rivoluzionaria.
Non aveva ancora quarant’anni e aveva già scosso il continente come nessuno dai tempi dell’indipendenza. Forse per questo lo si assimila oggi ai grandi eroi americani e perfino i suoi peggiori nemici hanno per lui un diffidente rispetto. Molti teorici degli anni ’60 hanno scritto e dibattuto sulle tattiche e le strategie per sollevare le masse dei popoli oppressi. Alcuni, come Règis Debray, che accompagnò Guevara in Bolivia, hanno abiurato poi i loro anni ribelli.
Qualunque sia il giudizio che meriti oggi l’uomo assassinato a bruciapelo l’8 ottobre 1967, nessuno può negare che, a torto o a ragione, ciò che più colpisce di lui è la fedeltà a una causa che rivendicava la giustizia e la libertà.