1959: Che Guevara e Camilo Cienfuegos entrano a L’Avana
PRIMO GENNAIO 1959, LA ‘REVOLUCION’ HA VINTO
di ALBERTO FLORES D’ ARCAIS (La Repubblica, 31 dicembre 1988)
LA NOTTE di Capodanno di trent’ anni fa, il dittatore cubano Fulgencio Batista y Zaldivar stava attendendo con ansia le ultime notizie dal fronte militare. Da due anni il suo esercito non raccoglieva che sconfitte nelle campagne e nei monti dell’ isola dei Caraibi e nelle prime ore del pomeriggio di quel 31 dicembre 1958 tutto era diventato più chiaro. Dopo una battaglia durata quasi quattro giorni, la colonna di ribelli guidata da Ernesto Che Guevara aveva infatti conquistato la città di Santa Clara, l’ ultimo bastione nella disperata difesa dell’ esercito governativo ormai in completo sfacelo. Le speranze del dittatore erano legate ad un improbabile miracolo, ma le notizie che gli portarono i suoi collaboratori non potevano essere peggiori. Le due colonne di barbudos guidate da Camilo Cienfuegos e dal Che erano ormai alle porte della capitale, anche l’ Avana sarebbe presto caduta.
Batista prese una rapida decisione. Convocò il colonnello Ramon Barquin, un ufficiale che aveva complottato contro di lui, che era stato incarcerato e poi rilasciato, e gli lasciò la guida del governo. Era la sua ultima carta da giocare in alternativa a Castro. Quando cominciava ad albeggiare, l’ ex sergente-stenografo dell’ esercito, il mulatto, figlio di un oscuro bracciante di canna da zucchero, che si era trasformato in un feroce dittatore, si fece portare all’ aeroporto dove era in attesa l’ aereo che lo avrebbe portato in salvo nella vicina Miami, in Florida. In quelle stesse ore, a circa novecento chilometri di distanza, nella sede del suo quartier generale situato in una fattoria nei pressi di Santiago, Fidel Castro Ruz stava scrivendo l’ appello con cui avrebbe chiamato i cubani allo sciopero generale. La vittoria del Che a Santa Clara e un colloquio con Camilo Cienfuegos lo avevano convinto che la lunga lotta armata, iniziata con una dozzina di compagni sui monti della Sierra Maestra, era giunta al termine. Mentre in tutto il mondo si festeggiava con brindisi e feste l’ arrivo dell’ anno nuovo, la rivoluzione cubana celebrava il suo trionfo. Uniformi abbandonate Il colonnello Barquin non ebbe il tempo di prendere alcuna decisione. Le forze ribelli, spalleggiate da gente di ogni ceto, borghesi, operai, diseredati, avevano conquistato ormai tutti i punti decisivi nello scacchiere militare dell’ Avana. Tra il primo e il due gennaio l’ intera capitale era nelle mani dei fidelisti, mentre i soldati di Batista tentavano la fuga, dopo aver abbandonato le uniformi, per confondersi con la gente comune e sfuggire così alla vendetta dei vincitori. Fidel attese ancora qualche giorno. Poi tra migliaia di persone in festa, mentre gli improvvisati tribunali rivoluzionari emettevano le prime condanne a morte, l’ otto gennaio fece il suo ingresso trionfale all’ Avana. La rivoluzione aveva vinto.
La lunga lotta di Castro e dei suoi contro la dittatura di Batista era iniziata molti anni prima. La data simbolica, quella da cui aveva preso il nome il movimento dei barbudos, è il 25 luglio 1953. Quel giorno, alla testa di circa centocinquanta uomini armati di semplici fucili, Fidel aveva dato l’ assalto alla caserma Moncada, nei pressi di Santiago, la più importante fortezza militare della provincia orientale dell’ isola caraibica. L’ assalto finì in un fallimento. I morti furono una quarantina, i sopravvissuti vennero arrestati tutti nel giro di una settimana. Cinquanta di loro vennero processati, gli altri, meno fortunati, furono torturati a morte. Tra coloro che si salvarono c’ erano Fidel e suo fratello Raul. In tribunale Castro non volle avvocati. Si difese da solo, dichiarandosi colpevole delle accuse mossegli dal regime: Condannatemi pure, la storia mi assolverà. La sua arringa contro la dittatura divenne ben presto uno dei testi sacri della piccola rivoluzione tropicale che si avviava a cambiare la storia dell’ America Latina. Grazie anche alla mediazione e alle pressioni del vescovo di Santiago, Fidel Castro riuscì ad evitare la condanna a morte, ma non 15 anni di reclusione. Ne scontò solo due.
Per una di quelle circostanze che a volte possono cambiare il corso della storia, venne liberato in virtù di una delle amnistie generali fatte da Batista per attenuare, di fronte al mondo e soprattutto agli Stati Uniti, le nefandezze della sua dittatura. Castro non resta a Cuba. Esiliato in Messico non rinuncia però alla lotta contro il regime. Ed è proprio in Messico, alla fine del 1955, che incontra l’ uomo che diventerà l’ altro grande protagonista della rivoluzione cubana: E’ un medico argentino, Ernesto Guevara. Da quel giorno tra i due il sodalizio politico e l’ amicizia diventerà una sola cosa. Fino all’ entrata trionfale all’ Avana nulla di grave turberà i loro rapporti. Sarà solo più tardi, di fronte alle difficili scelte rivoluzionarie, che qualcosa si incrinerà. Guevara, ormai conosciuto in tutto il mondo come il Che, lascerà l’ isola per andare a cullare il suo sogno fochista in Bolivia, dove nell’ ottobre del 1967 troverà la morte.
Alla fine del 1956 la vita in Messico diventa troppo rischiosa per i rivoluzionari cubani. Castro, suo fratello Raul, Guevara, ed altri ottanta ribelli, salpano dalle coste messicane a bordo del panfilo Granma. Dopo giorni di difficile navigazione sbarcano finalmente sul suolo cubano. Li attende una brutta sorpresa che si trasformerà in un’ altra bruciante sconfitta. Attaccati da un reggimento governativo vengono decimati. Riescono a salvarsi solo in dodici che fuggono sui monti della Sierra Maestra. E’ lì che Fidel inizia quella che sembra una follia: La lotta armata contro il regime di Batista. Castro trova un terreno fertile tra i contadini, recluta uomini, comincia con piccoli colpi di mano che diventano via via sempre più audaci. Ruba armi, attacca piccole pattuglie, poi caserme, conquista mitragliatrici e armi pesanti. L’ elemento sorpresa Le fila dei barbudos chiamati così perché Castro promette che non si taglierà la barba fino alla vittoria (promessa non mantenuta) si ingrossano e inizia una lunga guerra di logoramento. Dalle imboscate si passa a vere e proprie battaglie. Castro punta sempre sull’ elemento sorpresa, i fatti danno ragione alla sua tattica. I barbudos sono attivissimi nella propaganda non meno che nella lotta armata. Batista tenta di replicare con le stesse armi ma commette un errore imperdonabile. Annuncia trionfalmente che Castro è stato ucciso e che l’ esercito ribelle è stato distrutto. A smentirlo ci pensa uno dei grandi reporter del New York Times, Herbert Matthews, che riesce a raggiungere la Sierra e ad intervistare Castro. Gli articoli di Matthews, che non nasconde la sua simpatia per il leader ribelle, in quegli anni ancora lontano dall’ ideologia comunista, fanno diventare Fidel popolare negli Stati Uniti e la lotta dei barbudos conosciuta in tutto il mondo. Fanno soprattutto sapere ai cubani che Castro è vivo e che il suo esercito è più forte di prima. Da quel momento, per due anni, i ribelli conquistano palmo dopo palmo il territorio di tutta l’ isola. Fidel mette a segno due colpi propagandistici che gli daranno l’ onore delle prime pagine sui giornali di tutto il mondo. Il rapimento di Manuel Fangio, il popolare pilota campione del mondo di formula 1, e il sequestro di 47 militari americani in libera uscita dalla base Usa di Guantanamo. Sia Fangio che i soldati statunitensi verranno liberati. Alla fine del 1958 la dittatura di Batista è sempre più debole. Tutte le campagne sono ormai territorio libero nelle mani di Fidel e dei suoi. Il dittatore tenta la carta delle elezioni. I votanti sono pochi, i brogli molti, nessuno crede veramente alla conversione democratica dell’ ex sergente. Gli ultimi mesi vedono nuovi successi dei ribelli e la repressione sempre più feroce di dissenso da parte della polizia di Batista. Ma ormai il destino del dittatore è segnato. Perché si compia basterà attendere la notte di quel Capodanno di trent’ anni fa.
Le rivoluzioni hanno avuto il suo volto
(di Osvaldo Soriano)
In America erano in armi i «montoneros» argentini, i «tupamaros» uruguayani, i trotzkisti peruviani, i marxisti colombiani e salvadoregni, i sandinisti nicaraguensi, e in ogni parte sorgeva un «foco» di nuova insurrezione. La Dottrina della sicurezza nazionale, insegnata dai nordamericani nella Scuola di guerra del canale di Panama, preparava i militari di tutto il continente alla repressione.
Quest’uomo credeva ciecamente nell’onestà, nella giustizia e nella capacità dei popoli latinoamericani di capire qual è il loro destino.
Non immaginava quel che sarebbe cominciato con la sua morte, ma è certo che oggi non rinnegherebbe nulla della sua vita rivoluzionaria.