il nostro Calendario: il Maggio francese

Situationist

Il Maggio 1968 in Francia

Guarda lo speciale di Rai Storia: http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-889ef59f-8c17-4dcf-b295-c87df65abe4a.html?iframe&ensrbn=false

Testimonianza di René Lourau

Mi chiamo René Lourau e sono attualmente professore di sociologia all’Università di Paris 8, cioè un’università inaugurata nel ’68 a Vincennes. Mi occupo ormai da molto tempo di un filone di ricerca denominato «analisi istituzionale», in stretto rapporto con l’autogestione e con le idee libertarie in quanto si tratta di analisi e critica dello Stato.

È appunto nel ’68 che ho cominciato queste ricerche, quando ero assistente di Henri Lefevre all’Università di Nanterre. È noto che molti degli eventi del ’68 sono cominciati nel dipartimento di sociologia di Nanterre, dove non c’erano soltanto docenti come Henri Lefrevre o Jean Baudrillard, ma c’erano anche degli studenti, come un certo Cohn-Bendit o come Duteuil e qualche altro. Quindi il ’68 è per me non un simbolo ma una realtà.

Una delle cose che più mi ha colpito all’epoca è stato che un certo numero di correnti di pensiero politico vedevano nel ’68 la realizzazione delle loro idee: era una cosa che ci faceva sorridere. Gli anarchici dicevano: «È una rivoluzione anarchica», e in un certo senso penso che avessero ragione, ma da qui a dire che erano state le loro idee, la loro militanza a condurre a ciò…! Si dovrebbero fare molti distinguo, poiché si trattava di un movimento molto più ampio e sostenuto da gente – giovani e meno giovani – che spesso non aveva mai sentito parlare di anarchia.

I surrealisti, ai quali ero abbastanza legato all’epoca, hanno dichiarato anche loro: «Sì, è la rivoluzione come la chiediamo dal 1925». I situazionisti hanno detto: «È una rivoluzione situazionista». Insomma, tutti avevano un po’ torto e un po’ ragione.
C’è dunque stata effettivamente una parte simbolica, ma credo che – come sempre – la parola «simbolo» sia stata utilizzata per non parlare della realtà (e per questo la parola «simbolo» non mi piace), e se dei movimenti politici, avanguardisti o culturali, hanno parlato di simbolo e forse perché non erano o non erano più completamente nella realtà.
Io ho avuto la fortuna, ma non ero il solo a privilegiarne, di essere sociologo a Nanterre, dove sono avvenute molte delle cose che hanno dato vita al movimento studentesco del ’68. Come ho detto, mi occupavo di autogestione pedagogica ma in modo sperimentale, cioè non mi limitavo a scriverne. Eravamo in un certo numero a mettere in pratica – negli istituti in cui lavoravamo – cose molto contestatrici e sgradite all’istituzione accademica. Nello stesso tempo, riflettevamo su tutto ciò e diffondevamo l’idea di autogestione pedagogica. C’era nella corrente di cui ho parlato, già prima del ’68, una forte volontà di andare nella stessa direzione in cui stava andando il movimento del ’68. Cosa che va sottolineata in quanto il pre-’68 era stato un periodo di forte depoliticizzazione proprio come l’attuale. Ora, una delle idee uscite dal movimento del ’68, e non soltanto nel campo dell’educazione, è stata l’idea dell’autogestione; idea assolutamente non nuova, ma già messa in pratica dai repubblicani spagnoli nel ’36-’38 e da altri movimenti anarchici dall’Ucraina alla stessa Francia, che però appariva nuova perché caduta nell’oblio.

Un’altra cosa che mi ha colpito del ’68, nella pratica stessa del movimento – del quale ben presto abbiamo fatto parte anche noi insegnanti, anche se dal punto di vista statutario eravamo diversi dagli studenti – è stata la reinvenzione delle forme sociali. Dico «reinventate» perché non esistono mai nella storia invenzioni pure e semplici e perché ci sono periodi di oblio – più o meno lunghi – che danno l’impressione di scoprire nuove forme sociali di ribellione che invece sono sempre esistite.

La prima di queste forme sociali è stata l’assemblea generale, la famosa AG che ha influenzato molto le mie ricerche e quelle dei miei amici dell’analisi istituzionale, che si sono concentrate sull’istituzionalizzazione, sempre difficile e quasi impossibile, dell’AG. Ho quindi imparato molto nelle assemblee generali del ’68 – a Nanterre, alla Sorbona, alla Scuola di Architettura, all’Istituto Pedagogico e in molti altri luoghi – che sono veramente la forma che si ritrova in tutti i momenti caldi della storia. Per citare l’esempio francese (ma non è il solo), nel periodo rivoluzionario tra l’89 e il ’94, a Termidoro, tutto era scandito dalle AG, sia ufficiali che ufficiose, che hanno davvero determinano il corso della storia.

L’altra forma sociale è stata la manifestazione, che è senza dubbio ancora più antica dell’AG. E le nostre gambe se ne ricordano ancora! Abbiamo camminato tutti i giorni per chilometri e chilometri, per decine di chilometri, con amici o sconosciuti. E questa forma davvero molto fisica di opposizione ha modificato tutto il paesaggio urbano, ha prodotto una convivialità inedita, anzi completamente sconosciuta, perfino con la gente che rimaneva sui marciapiedi per veder passare la manifestazione. È questo un ricordo che si potrebbe definire sociologico, ma credo che tutti erano un po’ sociologi e che tutti potevano sentire quanto di straordinariamente liberatorio e libertario ci fosse nelle AG e nelle manifestazioni di strada, due cose che poi mi sono profondamente mancate.

Un terzo elemento di cui mi piacerebbe parlare – ma ce ne sarebbero molti di più – è il fatto che non siamo stati subito consapevoli che si trattava di un fenomeno non solo francese. Eravamo naturalmente informati di quanto era successo negli Stati Uniti dal ’66, di tutto il movimento della controcultura, nata in parte dalla contestazione politica contro la guerra in Vietnam, di quanto era avvenuto in Germania l’anno prima.

Mi ricordo ancora di aver preso il treno alla stazione Saint-Lazare per andare a Nanterre-La Folie (la fermata dell’Università si chiamava proprio così) con Dany Cohn-Bendit che era rientrato dalla Germania qualche settimana prima che si scatenasse il movimento; e Dany, che aveva appena incontrato Rudi Dutschke, mi ha raccontato tutto quello che stava succedendo in Germania, di cui non eravamo a conoscenza perché i giornali francesi non ne parlavano. I tedeschi a livello universitario, ma senza riuscire ad estendere il movimento, come poi in Francia, alla classe operaia, avevano già fatto azioni contro le istituzioni, avevano già contestato ciò che era «costituito», cosa che per me rappresenta l’essenza stessa del pensiero libertario o anarchico.

Ma è solo un po’ più tardi che ci siamo accorti che si trattava di un movimento vera- mente mondiale; si è saputo delle forme, certamente molto più militariste, che aveva preso in Giappone con i zengakuren. In Messico c’erano stati più di 200 morti nella Piazza delle Tre Culture: lì non erano militaristi, ma erano stati i militari, il governo, a massacrare la gente. In Italia e in molti altri Paesi europei, in tutti i continenti, perfino in alcune università africane – l’abbiamo saputo soltanto in seguito – erano successe cose. Per la prima volta dopo le rivoluzioni del 1848 ci siamo resi conto che non eravamo soltanto noi francesi a manifestare contro il governo, che – senza saperlo e senza ancor oggi poter analizzare le cause planetarie del fenomeno – facevamo parte di un movimento molto più vasto.

È vero che, se dò un’interpretazione critica, un po’ sociologica, del maggio ’68 – e cioè che non era un fatto isolato – faccio allusione ad un fenomeno che interessa anche i sociologi e i filosofi: ovvero al ruolo dell’immaginario, l’immaginario sociale studiato in particolare da Castoriadis. Come ho detto, è certo che non soltanto dopo (quando abbiamo ricostituito un immaginario meno «storia di famiglia», meno fantasticato, di questi movimenti mondiali) ma anche durante e prima (perché c’è sempre un «prima») l’idea di un rovesciamento dei valori di ciò che chiamiamo istituzioni era molto forte, non solo tra gli studenti, non solo tra le avanguardie artistiche e culturali o tra gli anarchici.

In assenza di un’ideologia precisa – cosa di cui, naturalmente, i politici e in particolare i comunisti e i marxisti si rammaricavano – in assenza di un’ideologia predominante e di uno stato maggiore (cose che vanno insieme) nel movimento, bisogna accettare l’idea che esisteva all’epoca, creata da condizioni che sarebbe troppo lungo analizzare, tutta una produzione di immaginari sulla società – come era, come non doveva essere, come avrebbe dovuto essere – senza che però ci fosse, salvo nei gruppuscoli più organizzati di tipo trotzkista o marx-leninista, un programma «chiavi in mano», una società di sostituzione (nello stesso modo in cui si riceve un’automobile di rimpiazzo quando si è avuto un incidente e si ha una buona assicurazione). E questa è una delle cose più belle del movimento del ’68: l’immaginazione è stata veramente al potere, come dice uno degli slogan più famosi, poiché non ci sono stati – malgrado alcuni tentativi miseramente falliti, come quelli di Mitterrand e di Mendes-France – recuperi politici del movimento; e in questo sta la sua singolarità, perché nella storia passata non vedo movimenti dello stesso tipo che siano riusciti a «evacuare dolcemente», per così dire, i tentativi di recupero: Mendes- France è stato fischiato ed «evacuato» dallo stadio Charletty quando ha cercato di mettersi alla testa del movimento. Mitterrand non si è mostrato molto, senza dubbio perché aveva poca fiducia nella possibilità di dare una direzione politica al movimento.

Questa è davvero un’originalità sociologica del movimento del ’68: il fatto che per qualche settimana l’immaginazione ha preso il potere, anche se ha poi dovuto cedere il posto, dopo le elezioni di fine giugno, alla dura realtà; che in effetti non era la realtà bensì anche in quel caso l’immaginazione, ma l’immaginazione della paura, cioè della Francia profonda che aveva voglia di ritornare all’ordine e che ha dato un’inaspettata maggioranza alla destra.

Ma poco importa, perché malgrado tutto per la gente che l’ha vissuto, e forse anche per quelli che non l’hanno vissuto direttamente ma che ne hanno avuto delle riso-nanze, è certamente stato uno dei più grandi laboratori storici del ventesimo secolo. […]

Durante gli avvenimenti, durante le settimane insurrezionali, i rapporti sono molto cambiati e senza dubbio i giovani studenti borghesi di Nanterre, dormendo qua e là tra due manifestazioni, hanno scoperto altri rapporti sociali. Tuttavia, ciò che ha veramente contraddistinto i decenni seguenti, sono state alcune ricadute del movimento del ’68 apparse nei mesi successivi. È vero che il movimento di liberazione sessuale, in generale, era stato preparato negli Stati Uniti dall’influenza di sociologi e filosofi della Scuola di Francoforte come Marcuse. È ancora più vero che il movimento di liberazione delle donne è sorto soprattutto nel ’69-70 e negli anni seguenti, e così il movimento di liberazione degli omosessuali. Però tutti questi fenomeni, completamente nuovi e sconosciuti fino ad allora, apparivano perché qualcosa li aveva scatenati, qualcosa aveva liberato l’immaginario sociale, come direbbe Castoriadis. Ed è vero che l’immaginazione e l’emozione sono come il ragionamento: bisogna che ci siano dei grandi eventi di massa, degli avvenimenti sociali, perché si produca lo scatto, ovvero l’idea che si può pensare diversamente.

In questo senso, certamente il movimento libertario, le avanguardie già citate – surre- alisti, situazionisti, ecc. – avevano se non proprio preparato lo «spirito delle masse» (non bisogna farsi illusioni) almeno ben accompagnato il movimento durante le settimane di esistenza. Non si può però dire che l’idea della liberazione della donna (e dell’uomo, perché anche gli uomini sono importanti) abbia fatto parte del programma della Federazione Anarchica francese, né del programma dei surrealisti o dei situazionisti. I due ultimi movimenti citati, d’altra parte, si sono dissolti l’anno dopo, nel ’69, ed è stato l’evento ’68 a produrre queste dissoluzioni: entrambi avevano così ben percepito che, nel momento stesso in cui l’evento si realizzava, essi erano sorpassati (è il lato terribilmente hegeliano della rivoluzione del ’68 che riconosco e ammiro) che, secondo la loro logica, si sono autodissolti, mentre altri movimenti non l’hanno fatto.

Potrebbe quindi esserci stata l’influenza di questi movimenti, ma penso che sia stato piuttosto l’effetto emozionale di quelle settimane, in cui forme sociali nuove diventa- vano completamente legittime – contro la grigia vita quotidiana, contro la routine del lavoro (poiché c’è stato uno sciopero generale per il non-lavoro attuato da gran parte della popolazione) – che ha prodotto uno choc intellettuale ed emozionale allo stesso tempo. E questo ci permette di capire come la nascita dei movimenti che hanno segnato profondamente i trent’anni successivi siano stati una conseguenza del movimento ’68 anche se non una parola d’ordine del movimento stesso.

Volevo appunto sottolineare che non si tratta di una bella storia in cui tutto avviene nello stesso tempo. Ciò che è veramente accaduto in questo evento (noi lo chiamiamo «l’analizzatore») è stato il fatto che ha obbligato tutti, senza tener conto delle differenze culturali, delle conoscenze o delle appartenenze politiche e ideologiche, a far lavorare le meningi, a liberare tutte le cellule grigie, a fare in modo, cioè, che l’immaginazione non fosse più prigioniera.
È difficile fare un bilancio trent’anni dopo. Ho cercato di mostrare che non era una ri- voluzione come le altre: non si è prodotta come le altre, non si è svolta come le altre ed ha avuto, in fondo, conseguenze molto più importanti delle rivoluzioni omologate dalla storia. Le rivoluzioni omologate sono quelle che corrispondono ad un cambiamento degli uomini politici, cioè quelle che iniziano un processo d’istituzionalizzazione, e come Max Weber ed Hegel hanno dimostrato, interviene la negazione, cioè si assiste ad una specie di rinnegamento – programmato ed orchestrato – del progetto rivoluzionario iniziale.

Naturalmente anche molti protagonisti del ’68 sono «entrati» in questa istituzionaliz- zazione neo-liberale che ha cominciato a manifestarsi negli anni Settanta. Ma non c’è stato, né in Francia, né in altri Paesi, un processo d’istituzionalizzazione concretizzatosi in una dottrina sociale o in un cambiamento di uomini politici. Quindi, ancora una volta, c’è qui una grande originalità dalla quale discende la difficoltà di fare un bilancio.

Tenderei però a non ripetere, come tutti, che c’è soprattutto un’eredità culturale. Non ne sono così sicuro, perché la cultura è qualcosa che cambia molto spesso, che possiede una temporalità abbastanza frammentaria, abbastanza rapida, soggetta alle mode. Tra l’altro, la nozione di cultura – che è una nozione da selvaggi, in quanto consiste nel rigettare le altre culture – non mi piace affatto. Ci sono stati, nel campo culturale (senza insistere troppo su questo termine) cambiamenti profondi. Non per niente molti artisti sono stati implicati nel movimento: ricordiamoci dell’occupazione dell’Odéon da parte di Jean-Louis Barrault. Anche in questo caso c’è stata quella che definirei «un’autorizzazione», una libertà data all’immaginazione. In definitiva, si trattava del programma anarchico classico (già ideato da Bakunin, che aveva molta immaginazione e senso estetico), ma non costituiva il nucleo dei programmi anarchici contemporanei agli eventi. Io credo che la vita artistica – definita vita culturale, ma che è soprattutto artistica poiché in letteratura ce ne sono meno tracce – resta ancora oggi largamente tributaria di quel terremoto del ’68. Insomma, c’è stata veramente una mutazione nell’immaginario, nelle mentalità (o come si diceva in altri tempi, nella psicologia di massa). Il ’68 è stato un fenomeno che ritengo irreversibile, anche se è stato ricoperto da molteplici reazioni, da restauri, da recuperi; e resta un punto di riferimento in rapporto a cose che prima non erano presenti nell’immaginario sociale, se non in gruppi minoritari come gli anarchici, i situazionisti o i surrealisti.

Castoriadis aveva scritto in un articolo che il ’68 è soprattutto la critica delle istituzioni. Ci si rende conto che c’è l’istituzione, che non ci sono soltanto i governi, gli uomini politici, i partiti, ma che c’è qualcosa di più profondo, qualcosa di fondamentale che permea tutti gli aspetti dell’esistenza. E l’idea che si possa (traduco alla mia maniera) analizzare l’istituzione – come tanti operai, contadini, studenti hanno fatto nel ’68 e anche dopo, sul posto di lavoro o d’attività – è qualcosa che è rimasto, pur se in maniera molto meno netta e visibile. Tuttavia, secondo me è proprio questa la fibra che si può chiamare libertaria (anche se forse si fa troppo onore a certi libertari che non hanno dato l’esempio nella misura in cui si sono anch’essi istituzionalizzati, cosa normale del resto) e che è veramente un’eredità inalienabile, pur se può divenire oggetto di contestazione e di processi, o essere resa completamente invisibile, cosa che avviene in quelle epoche che spingono al pessimismo (non è il mio caso).

Dietro quest’idea, generale e sociologica, secondo la quale c’è qualcosa contro cui ci si può ribellare (il proprio capo, il direttore, la burocrazia o qualsiasi altro organismo), c’è l’altra idea profondamente sociologica – che mi ha fatto dire in precedenza che tutti, in quei momenti, erano sociologi e tutti possono ridiventarlo in qualsiasi momento, perché il ’68 ha sparso semi ancora vivi dell’istituzione-Stato e della critica, sempre più necessaria, dello Stato in tutte le sue metamorfosi. E questo in un pianeta in corso di mondializzazione, dove l’economia sembra regnare su tutto; cosa che si scontra continuamente con delle contraddizioni perché assolutamente falsa. Se l’ultima crisi, nata a Hong Kong, è in via di soluzione, lo è per ragioni politiche e non economiche: due frasi di Clinton sono bastate perché questo sedicente flusso economico non si sia esteso e non abbia inondato il pianeta intero. Più che mai, sotto forme che sia gli anarchici che i sociologi dell’analisi istituzionale devono analizzare, è sempre la forma-Stato che – anche se si crede che stia deperendo o che bisogna farne a meno o che ce ne voglia il minimo possibile – è veramente la forma della sovranità, la forma, direi, quasi mistica, in cui tutto finisce per convergere, in cui tutto attraversa le istituzioni. Ed è cercando di capire che cosa rappresenta per noi l’istituzione, il gioco di poteri in cui siamo implicati, che si può capire questa trasversalità statuale, questo vero e proprio modus vivendi, queste modalità con cui lo Stato vive e sopravvive a spese nostre, aggrappandosi a noi, alle nostre vene giugulari come Dracula, e spesso in maniera implicita, invisibile o addirittura inconscia (compresi quegli intellettuali che si credono grandi sociologi, grandi politologi, convinti di conoscere il funzionamento della so- cietà).

Ecco, quello che resta del ’68 è una grande lezione di sociologia, di cui vedo ancora delle tracce, anche se questa lezione è lungi dall’essere vistosa e squillante come allora. Ma l’estate e la primavera ritornano periodicamente. Non credo assolutamente alla fine della storia, che sia di taglio neoliberale o di taglio nichilista di sinistra: tutto ciò mi è completamente estraneo e se sono portato a pensare così, non è a causa di origini intellettuali specifiche, ma è perché è proprio questa la grande lezione sociologica e politica del ’68.

(tratto da http://www.centrostudilibertari.it/sites/default/files/materiali/boll11_0.pdf)

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